Il Watergate italiano è silenzioso, sotterraneo, invisibile. In una democrazia normale un presidente del Consiglio che usa un’intercettazione segreta per influire sull’esito di una campagna elettorale sarebbe da impeachment. O almeno innescherebbe una seria discussione in Parlamento e nel Paese. Tanto più in un momento in cui il governo vuole imporre una legge che riduce le possibilità d’intercettare e azzera la possibilità di raccontare le intercettazioni sui giornali. Ebbene, in Italia c’è una storia che assomiglia tanto al Watergate, con Silvio Berlusconi “utilizzatore finale” di una delle rare intercettazioni davvero segrete, pubblicata sul Giornale della sua famiglia e usata mediaticamente per ottenere uno straordinario risultato politico. L’ormai celebre colloquio tra l’ex segretario dei Ds, Piero Fassino e l’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte in cui il primo chiede al secondo: “Allora, siamo padroni della banca?”.
È la storia di una grande manipolazione, con cui il capo del governo, usando quel file audio non ancora nemmeno trascritto, è riuscito a imprimere una svolta a una campagna elettorale – quella del 2006- che, secondo tutti i sondaggi, avrebbe dovuto perdere. E che invece, di fatto, ha pareggiato.
Eppure questa vicenda resta sottotraccia, quasi sconosciuta, fuori dal dibattito democratico. Ma oggi è ormai prossima ad esplodere. Le indagini della magistratura milanese che, a inizio giugno, hanno portato all’arresto per estorsione di Fabrizio Favata, un ex amico e socio occulto di Paolo Berlusconi, sono a un passo dalla svolta. Martedì 22 giugno i pm hanno interrogato come testimone Piersilvio Cipollotti, un assistente dell’avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Sono poi stati sentiti parlamentari, giornalisti, guardie carcerarie. Decine e decine di persone che in qualche modo sono venute a conoscenza della vicenda.
Ora Paolo Berlusconi, al quale il nastro di Fassino fu consegnato proprio da Favata, è sotto inchiesta per ricettazione. Mentre niente si sa della posizione giuridica (coperta da segreto) del suo ben più importante fratello.
Il silenzioso, sotterraneo, invisibile Watergate italiano di Silvio Berlusconi si consuma la vigilia di Natale del 2005, quando al presidente del Consiglio viene regalata la chiavetta usb con la telefonata segreta. Ma nasce almeno un anno prima, nel 2004. All’inizio c’è una caccia all’appalto: protagonista Roberto Raffaelli, manager e azionista della Rcs Research control system, l’azienda che fornisce macchine e software per le intercettazioni telefoniche a molte procure italiane. Raffaelli cerca una strada per conquistare la commessa dell’impianto per le intercettazioni telefoniche nella Romania del presidente Adrian Nastase, grande amico di Berlusconi. “Secondo gli auspici del governo e dello stesso presidente rumeno Nastase”, scrive il giudice per le indagini preliminari Bruno Giordano che ha ordinato l’arresto di Favata, “e in base a quanto discusso nei lavori preparatori dell’Accordo di sicurezza del 2004, tale impianto avrebbe dovuto avere il finanziamento da parte dell’Italia”.
Si muovono anche i servizi segreti. Vola in Romania il prefetto Emilio Del Mese, a capo del Cesis, l’organismo che collega intelligence militare e intelligence civile. Scrive il giudice: “Il 10 maggio 2004 la delegazione italiana, presieduta dal prefetto Del Mese, nella sua qualità di segretario generale del Cesis, si è recata a Bucarest per mettere a punto il testo definitivo dell’accordo, poi firmato alla fine di maggio, e in tale occasione si discusse anche del piano di potenziamento dei sistemi tecnici della Romania”.
Raffaelli mette insieme una piccola “cricca” per conquistare l’appalto. È chiaro che si fa bingo se si arriva a Silvio Berlusconi. Bene, un “fornitore” (di false fatture) di Raffaelli, Eugenio Petessi, una strada ce l’ha, per riuscire a coinvolgere il presidente del Consiglio: si chiama Fabrizio Favata, è socio di Petessi in mille avventure ed è amico di Paolo Berlusconi (“Ha pianto sulla mia spalla”, racconta Favata, “quando Natalia Estrada lo ha lasciato”). Favata è anche socio di Paolo, in un paio di società di telefonia, IpTime e IpTrend. Può quindi essere il tramite per arrivare al fratello maggiore. Il contatto, effettivamente, funziona: Favata apre un canale tra Raffaelli e Paolo Berlusconi. I due s’incontrano tre volte. “I primi due incontri avvennero nell’ufficio di Paolo Berlusconi presso il Giornale, in Milano, e il terzo avvenne a Roma a Palazzo Grazioli”, scrive il giudice Giordano. “Nel secondo incontro, Raffaelli riferì delle difficoltà che Rcs incontrava per ottenere degli ordini all’estero e Paolo Berlusconi disse che loro avrebbero potuto svolgere attività di segnalazione presso governi stranieri con cui il governo italiano, in quel momento presieduto dal fratello Silvio, aveva buoni rapporti, al fine di favorire l’attività imprenditoriale di Rcs.
In occasione del terzo incontro, avvenuto a Roma a Palazzo Grazioli, Paolo Berlusconi presentò a Raffaelli Valentino Valentini, all’epoca responsabile delle relazioni internazionali della presidenza del Consiglio che, a dire di Berlusconi, avrebbe potuto in concreto segnalare le attività di Rcs all’estero”. Valentini conferma l’incontro, avvenuto nella primavera 2005, e ammette di aver dato la sua disponibilità: “Avrebbe visto quello che poteva fare, ma forse spiegò anche a Raffaelli che non sapeva se con il nuovo governo della Romania sarebbero proseguiti i rapporti amichevoli che l’Italia aveva avuto con il precedente governo presieduto da Nastase”.
Il colpo di scena avviene nell’autunno 2005, quando scocca una scintilla che provocherà il cortocircuito del Watergate italiano. Racconta Petessi al giudice: “Nell’ottobre-novembre 2005 io mi trovavo casualmente nell’ufficio dell’ingegner Raffaelli e lui stava lavorando alla sua scrivania a un computer portatile; dopo qualche minuto, ha alzato gli occhi e rivolgendosi a me mi girò il computer e mi disse: ‘ti faccio sentire una cosa curiosa’. Sullo schermo del computer io vidi la riproduzione di un foglio con delle colonne in cui a sinistra erano indicate delle date e degli orari, poi nella colonna successiva vi erano indicati dei nomi e infine nell’ulteriore colonna dei commenti del tipo ‘non importante’ o ‘non rilevante’; nella schermata del computer sono rimasto colpito, avendo visto dei nomi di persone conosciute, in particolare ricordo un rigo in cui si riportavano i nomi di Briatore e Ricucci, un altro in cui si riportava il nome di Corso Bovio e un altro in cui apparivano i nomi di Consorte e Fassino; nel girare il computer verso di me Raffaelli mi disse ‘senti questa, tanto non è importante’, quindi schiacciò un tasto e così sentii una conversazione telefonica intercorsa tra Briatore e Ricucci, in cui ricordo che si parlava di un invito in barca che uno faceva all’altro; mentre Raffaelli stava per rigirare il suo computer verso di lui io, come detto, sono stato colpito dai nomi di Fassino e Consorte, proprio a causa della notorietà politica del primo e quindi, incuriosito, chiesi: ‘e questa?’, indicando appunto l’annotazione relativa a Consorte e Fassino. Raffaelli allora mi disse: ‘Ok, ti faccio sentire anche questa che tanto non ha rilevanza’. Io ho quindi sentito l’inizio di tale conversazione in cui ricordo che Fassino disse ‘abbiamo una banca’”.
Petessi dice la verità: è provato dagli accenni a particolari inediti, mai citati da alcun giornale: la presenza, tra gli interlocutori di telefonate intercettate, dell’avvocato Corso Bovio; l’invito in barca rivolto, nella telefonata del 22 luglio 2005, da Stefano Ricucci a Flavio Briatore. Ma è la telefonata di Fassino, che sul momento non colpisce particolarmente Petessi, a tornare buona poche settimane dopo: diventa il regalo di Natale da portare a Berlusconi. E il 31 dicembre finisce in prima pagina sul Giornale.
Intanto però Favata ha fatto da postino: tra Raffaelli e Paolo Berlusconi. Non ha portato soltanto, secondo quanto racconta, la chiavetta usb con l’intercettazione proibita, ma anche denaro. Lo confessa Petessi al giudice, che scrive: “Dal giugno del 2005, per oltre un anno, aveva emesso fatture fittizie nei confronti di Rcs, sempre per richiesta di Raffaelli, dell’importo di 40 mila euro, oltre iva del 20 per cento, ogni mese”. Poi “Petessi aveva consegnato regolarmente in contanti, per disposizione di Raffaelli, le somme in questione a Favata, in Milano nei pressi dell’ufficio di Paolo Berlusconi presso il quotidiano Il Giornale. Favata gli chiedeva di agire in tal modo, in quanto la somma in questione doveva essere consegnata a Paolo Berlusconi in cambio di un suo intervento per consentire lo sblocco del progetto per la Romania”. “All’inizio del suddetto pagamento, Favata gli disse che aveva ottenuto, attraverso Paolo Berlusconi, che Raffaelli potesse incontrarsi a Roma a palazzo Graziali con Valentino Valentini, al quale dovevano essere destinate le somme da lui versate a Paolo Berlusconi, perché sbloccasse l’affare di Rcs con la Romania”.
Ma qualcosa non funziona. “Dopo qualche tempo, Raffaelli gli disse di aver incontrato Valentini casualmente durante un viaggio aereo e che quello si era mostrato abbastanza freddo nei suoi confronti, tanto che Raffaelli commentò che a suo parere in realtà Valentini non aveva affatto ricevuto il denaro che, a dire di Paolo Berlusconi, avrebbe dovuto gestire per favorire la conclusione delle trattative in corso con la Romania”.
Se è così, chi si è tenuto i soldi? La procura di Milano nel marzo 2010 ha iscritto nel registro degli indagati Paolo Berlusconi: per millantato credito, nell’ipotesi che abbia incassato lui i soldi portati mensilmente da Favata (un totale di 560 mila euro), promettendo di darsi da fare presso Valentini, ma tenendo invece i soldi per sé. Ai primi di giugno 2010, trapela che Paolo è indagato anche per ricettazione: per aver ricevuto l’intercettazione segreta. La procura di Milano si è dunque convinta che Paolo l’abbia davvero ricevuta, quella chiavetta usb portata da Raffaelli.
L’appalto romeno, intanto, non decolla. La piccola “cricca” fa ancora qualche tentativo. Prende contatti anche con altri personaggi della politica e dell’amministrazione: il senatore pdl Romano Comincioli, il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, il direttore dell’informatica ministeriale Stefano Aprile… In seguito, dopo la sconfitta elettorale di Berlusconi, sostituito a Palazzo Chigi da Romano Prodi, Petessi e Raffaelli contattano anche il capodipartimento della Giustizia Claudio Castelli e una dirigente Udeur, Fernanda Bruno, che avrebbe potuto propiziare un incontro con il nuovo ministro, Clemente Mastella. Ma l’affare in Romania non si concretizza e la storia sembra finita per sempre. Malgrado il regalo di Natale e la promessa di “eterna gratitudine” dei fratelli Berlusconi a Raffaelli e Favata.
È a questo punto che si mette in moto Favata. In gravi difficoltà economiche, a causa della chiusura di IpTime e IpTrend, cerca in tutti i modi di riscuotere quell’“eterna gratitudine” che gli era stata promessa. Chiede soldi a Paolo Berlusconi. Manda segnali a Silvio, scegliendo quelli che ritiene possano essere gli intermediari (l’avvocato Niccolò Ghedini, i direttori del Foglio Giuliano Ferrara e di Panorama Maurizio Belpietro). Chiede prestiti a Raffaelli, che sborsa e consegna a Petessi 300 mila euro, prelevati dai fondi neri dell’azienda. Favata continua a chiedere soldi. Minaccia di vendere la storia del regalo di Natale. Contatta i giornalisti dell’Unità e dell’Espresso. Parla con Antonio Di Pietro (che lo ascolta e poi manda un esposto alla procura di Milano).
Le intenzioni di Favata sono esplicitate in una lettera, datata 12 ottobre 2007, mandata ad Alberto, cioè all’amico Eugenio Petessi: “Carissimo Alberto, come tu ben sai non riesco a garantire alla mia famiglia un dignitoso livello di vita; potrai immaginare cosa vuol dire vivere in un paese dove tutti si conoscono avendo debiti nei negozi; fare la spesa diventa sempre più difficile, per non parlare delle bollette arretrate ancora da pagare! A tutto questo aggiungi che tra una settimana è Natale. Ho deciso pertanto, visto che Roberto con me parla in una maniera e a te dice l’esatto opposto, di ‘vendere’ la vicenda Paolo, avendo due possibilità: la prima è con Repubblica avendo l’aggancio di una giornalista; la seconda molto più ricca ma anche più pericolosa, è con Fabrizio Corona. Garantisco la massima discrezione nei tuoi confronti come nei confronti di Roberto. Speravo di riuscire a parlarti personalmente, ma per mille motivi, non è stato possibile. Un affettuoso abbraccio. Fabrizio”.
Nella misura che ne ordina l’arresto, il gip si mostra convinto che Favata abbia chiesto soldi e ricattato, che abbia parlato in modo ambiguo e obliquo, ma che abbia detto anche alcune verità. “Innanzi tutto, risulta pacificamente provato l’interesse di Rcs, o meglio di Roberto Raffaelli, per un progetto della Romania, avente per oggetto l’installazione nel suo territorio di impianti per l’intercettazione”. Raffaelli, invece, mente “su due circostanze di grande rilievo”: quando, nei primi interrogatori, nega di essere ricattato da Favata; e quando “ha evitato di riferire” che “la vigilia di Natale 2005 lo stesso Favata e Raffaelli non soltanto si sarebbero recati ad Arcore, ma avrebbero fatto ascoltare le conversazioni telefoniche intercettate al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e avrebbero consegnato a lui e/o al fratello Paolo il supporto informatico che le conteneva”.
Raffaelli va a incontrare l’avvocato Ghedini. Perché, si chiede il gip? “Proprio perché il fatto che Favata minacciava di rendere pubblico coinvolgeva non solo Paolo Berlusconi, cliente dell’avvocato, ma anche lo stesso Raffaelli; se infatti il fatto minacciato avesse riguardato il solo Paolo Berlusconi, non vi sarebbe stata alcuna necessità che Raffaelli, dopo che la prima volta aveva fornito l’informazione, tornasse per ricevere una risposta, in quanto di nessuna risposta avrebbe avuto bisogno”. E “non vi è dubbio che il fatto minacciato da Favata non poteva riguardare il pregresso rapporto professionale intercorso tra Favata e Paolo Berlusconi, a cui Raffaelli era del tutto estraneo, ma doveva necessariamente riguardare la consegna alla vigilia di Natale 2005 del supporto contenente le conversazioni intercettate, unico fatto che poteva coinvolgere unitariamente Favata, a dire di questi, e Raffaelli, nonché i clienti dell’on. avv. Ghedini, Silvio e Paolo Berlusconi”.
D’altra parte, questa è una storia con troppi silenzi. I silenzi di Paolo Berlusconi: “Pur avendo rilasciato un mandato difensivo all’on. avv. Ghedini in ordine alla suddetta vicenda, ritenendosi persona offesa di un eventuale reato, tuttavia, con decisione assai singolare, non ha presentato alcuna denuncia all’autorità giudiziaria (ed ha taciuto, anche quando è stato invitato a comparire per rendere l’interrogatorio in ordine alla supposta ricezione di denaro per favorire la conclusione dell’affare con la Romania)”. Un comportamento simile, secondo il gip, “si giustifica solo nel caso in cui la persona offesa, come nel caso analogo di Raffaelli, ritenga che dalla denuncia del tentativo di ricatto gli possano derivare più danni che vantaggi, perché ad esempio la pubblicizzazione, inevitabilmente conseguente alla celebrazione di un processo penale, del fatto minacciato costituisca di per sé già un grave danno”.
E i silenzi di Niccolò Ghedini, “cioè la persona a cui Favata avrebbe in concreto esposto le sue richieste di avere un vantaggio economico”. L’avvocato-parlamentare, “citato per rendere sommarie informazioni sui fatti a sua conoscenza, si è rifiutato di comparire”. Ha sfoderato il segreto professionale ed esibito due provvidenziali (e profetici) mandati a difendere Paolo e Silvio, ricevuti nel luglio e nell’ottobre 2006 e depositati solo nel febbraio 2010. Quanto all’assistente di studio che ha ricevuto Favata, l’avvocato Piersilvio Cipolotti, ci ha pensato il giudice Giordano a stabilire che l’incontro tra Cipolotti e Favata non è stato di natura professionale, tra avvocato e cliente (o potenziale cliente). Cipolotti (che ieri è stato ascoltato in procura, come persona informata sui fatti, dai pm Massimo Meroni e Maurizio Romanelli) ha partecipato invece all’incontro come semplice intermediario di una richiesta economica.
E Silvio? Per ora resta ai margini della partita. Eppure è lui l’“utilizzatore finale” dell’intercettazione segreta che ha dato il via al Watergate italiano.