Dimentichiamo Montesquieu: ormai il governo fa le leggi. Non il Parlamento, già ridotto ad assemblea di commessi di partito da una legge elettorale infame la quale, com’è noto, consente a pochi capibastone di nominare i rappresentanti del “popolo sovrano”.
Sulla manovra finanziaria è stato imposto il trentacinquesimo voto di fiducia in due anni. Quasi tutte le leggi che contano negli ultimi due anni sono passate con l’applicazione di una norma prevista in casi straordinari. Nel disprezzo del parlamento, con l’imposizione di un ricatto. Di fronte a un disegno di legge o a un maxiemendamento blindati dal voto di fiducia, il commesso parlamentare di partito ha questa libertà: o vota senza discutere (e spesso senza nemmeno leggere) o torna a casa senza essere più ricandidato.
E dire che la Costituzione, fino a prova contraria ancora vigente, stabilisce i connotati di una repubblica parlamentare e affida alla principale assemblea elettiva il ruolo non solo di legiferare, ma anche di dare la fiducia ai governi e di controllarne l’operato.
Se a questa stortura aggiungiamo la concentrazione in mani governative del potere economico e mediatico, l’affermazione di un modello di partito di massa leaderistico e padronale, privo di democrazia interna, e l’attacco costante alle autorità di garanzia e all’indipendenza della giustizia, capiamo bene che, al di qua della questione morale e penale, che pure è un macigno, e dei contenuti stessi delle politiche governative e delle leggi, che concorrono a disegnare una società sempre più iniqua, l’attuale involuzione autoritaria – un’eversione da svuotamento degli equilibri istituzionali previsti dalla Costituzione – riguarda prima di tutto la struttura formale del potere, la sua abnorme e illiberale concentrazione.