Per gli amici ministro lo è già. Almeno da dieci anni. Da tanto infatti lo chiamano “ministro delle tv”, riferendosi a quelle di Silvio Berlusconi. Anche se a Mediaset Paolo Romani non ha mai lavorato. Ma ha sempre avuto buone idee per il Biscione. Altre valide per il premier. Altre ancora ottime per entrambi. E si è sempre dato un gran da fare. Avviando sulle sue orme anche il giovane figlio Federico. Sdoppiando, in pratica, se stesso. Due Romani is meglio che one.
Nato a Milano nel settembre del 1947, Romani comincia da subito a lavorare nel settore televisivo. Prima ancora di Silvio. Ad appena 27 anni installa TeleLivorno. A 29 diventa direttore generale di Rete A. Amico di Paolo Berlusconi, Romani viene segnalato a Salvatore Ligresti che lo cerca per il rilancio di Telelombardia. Nel 1986 ne diventa amministratore delegato, fino al 1990 quando Ligresti lo chiama: “Lei è bravissimo, ma Craxi mi ha chiesto una televisione socialista”. Romani, che è un liberale, non si scompone. E s’inventa a dirigere Lombardia7 dove con il programma “Vizi privati e pubbliche visioni”, condotto da Maurizia Paradiso, conquista un buon successo e qualche guaio giudiziario per l’uso delle linee telefoniche con numerazioni 144 e 166.
Ma è ormai l’autunno del 1993, si sta organizzando la discesa in campo del Cavaliere. Romani è tra i primi a imboccare la via di Arcore, al seguito di Marcello Dell’Utri, Mario Valducci, Enzo Ghigo e gli altri reclutati in Publitalia. Nel marzo 1994 fa il suo ingresso con la spilletta di Forza Italia a Montecitorio. Da allora non se n’è più andato dal Palazzo. E’ passato per le commissioni difesa, trasporti, finanza, giunta delle elezioni, poste e comunicazioni, riordino del sistema televisivo, vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
Nel 2005 è nominato sottosegretario alle Comunicazioni. Si allontana dalla capitale solo su incarico del Cavaliere per risolvere due vicende delicate: individuare un erede per guidare il partito in Lombardia, dove i ciellini di Formigoni creano qualche problema, e risolvere l’annosa e imbarazzante questione dell’area monzese della Cascinazza, di proprietà del fratello del premier.
La carica di coordinatore regionale di Forza Italia, che detiene dal ’98, la lascia dopo sette anni solo con la certezza che non finisca in mano agli uomini di Roberto Formigoni, braccio politico di Comunione e Liberazione, invisa a Romani, capitano dei liberal. Passa il testimone alla giovane ma già promettente Mariastella Gelmini.
Ben più complicata e delicata la questione della Cascinazza. Un’area di 700mila metri quadrati che Paolo Berlusconi acquista nel 1980 con l’intento di realizzare 1 milione 750mila metri cubi in cambio della cessione a titolo gratuito di 282mila metri quadrati al comune di Monza. Ma l’immobiliare non è mai riuscita a costruire. Le volumetrie azzerate, l’area vincolata a verde. Comincia il balletto di esposti, ricorsi, denunce che si protrae inutilmente per trent’anni. Persino la Cassazione si pronuncia: lì non ci si può piantare neanche una tenda, figurarsi costruirci una città. Nel 2005 la Regione però, con una piccola variazione approvata con appena un voto di scarto, modifica la legge urbanistica. Berlusconi torna alla carica. E’ il momento di agire. Si riprende in mano tutto, ma questa volta serve un amico nel comune di Monza.
E alle elezioni del 2007 chi si candida? Paolo Romani. Che a giugno entra in giunta ed è nominato assessore all’urbanistica e a Expo 2015. Pur mantenendo l’incarico di sottosegretario del governo, lavora in Brianza. Si dedica alla Cascinazza. Ma Paolo ha deciso di vendere. È costretto a fare cassa: il gruppo Pbf ha perdite per 28,4 milioni e debiti per 108.
Nell’ottobre 2007 si libera dell’area cedendola per 40 milioni di euro con una clausola che prevede un’integrazione di 60 milioni nel caso i terreni fossero stati “valorizzati”. Di Romani, del resto, c’è da fidarsi. A ragione. Perché nel novembre 2009 il Comune, grazie a una variante (a Monza nota come “variante Romani”) sblocca la costruzione di 420mila metri cubi.
A guardare il progetto sembra Dubai: è prevista pure una pista di sci coperta, una monorotaia sul canale Villoresi, piscine, palestre, negozi. Anche se bastano due gocce di pioggia ad allagare tutto. Lo dice il piano di assetto idrogeologico della Regione Lombardia. Ma tant’è. Berlusconi intasca anche i 60 milioni di bonus. Paolo Romani può lasciare l’assessorato all’urbanistica (ma si conserva quello per Expo 2015, l’evento più importante che l’Italia avrà nei prossimi anni) e può tornarsene a Roma. Dove l’attende l’incarico di viceministro allo Sviluppo Economico.
Romani non è tipo da occupare poltrone stando con le mani in mano. Torna così al primo amore, la televisione. Si era già dilettato con la legge Gasparri. Decide di affrontare il nodo par condicio. Le elezioni del resto sono vicine. Già aveva tentato una variazione nel 2006, proponendo una nuova ricetta per la bulimia propagandistica del Cavaliere: lasciare inalterata la normativa introducendo però la possibilità per i partiti di promuovere i programmi elettorali senza alcun limite, a pagamento. Ciascuno secondo le proprie disponibilità economiche. Nulla da fare però. E se non si riesce a cambiare la legge tanto vale ribaltarla: nessuno vada in tv.
Questa l’idea che nel 2009, in vista delle regionali, riesce a realizzare. Un genio. La Rai ferma i talk show. Annozero e Ballarò in primis. Che per protesta organizzarono “Raiperunanotte” a Bologna. Romani disse di non avere responsabilità nella decisione: “La commissione Vigilanza ha applicato alla lettera una sciagurata legge che si chiama par condicio, che noi vorremo abolire”. Come da abolire, dice in diverse occasioni, sono i programmi di Michele Santoro e Serena Dandini. Critica anche RaiNews24. Per non parlare di Marco Travaglio, che definisce “incompatibile con il servizio pubblico”.
Romani del resto è lapidario. Quando la Ue bocciò l’estromissione di Sky dal digitale terrestre, il viceministro con i suoi sbottò: “Me ne frego dell’Europa, decido io”. E giusto pochi giorni fa, il 21 luglio, quando da Bruxelles è arrivato il via libera allo sbarco di Sky sul ddt, Romani ha commentato: “Un regalo al monopolista della pay-tv”. Sa che di lavoro ce n’è ancora molto da fare. Tempo non ne perde. Va detto. Ed è lungimirante.
In questi mesi è riuscito a stilare un regolamento che, così come è, sostanzialmente tarpa le ali alle web-tv. Che oggi sono 5mila in Italia, ma sono ovviamente destinate a crescere. Facile farsi una web tv, ed economico. Il regolamento invece prevede richiesta di permessi, registrazione con versamento di tremila euro, mega sanzioni per chi sbaglia e una gran mole di documenti da presentare. Si preoccupa anche della diffusione della fibra ottica e suggerisce che siano i Corecom (che dipendono dall’Agcom) a gestire l’ormai vicina diffusione sul territorio della nuova rete.
Questo per quanto riguarda il lavoro. Ma Romani, come tutti, ha anche una vita privata. Una famiglia. Due mogli. Figli. Preoccupazioni. Problemi. Qualche guaio. In particolare il fallimento di Lombardia7, la tv del programma di Maurizia Paradiso. Secondo l’accusa quando la rete era già in stato di decozione, Romani avrebbe eseguito una serie di pagamenti preferenziali per più di un miliardo di lire. Con assegni “monetizzati dallo stesso Romani”. L’udienza preliminare termina con un proscioglimento. Deve però pagare 400mila euro come risarcimento al curatore fallimentare della tv.
Una cifra rilevante. 200mila euro arrivano con una fideiussione dalla banca Popolare di Lodi, all’epoca nelle mani di Giampiero Fiorani. Per l’altra metà gli è concessa la rateizzazione con versamenti mensili. Finora onorati con assoluta e signorile puntualità. Va detto.
Come gli va riconosciuta la capacità di essere stato esempio per i figli. Nonostante i numerosi impegni romani. In particolare il 27enne Federico deve aver imparato molto dal padre. Tanto da volerne seguire le orme. Per quanto il papà abbia insistito a farlo lavorare in televisione, prima a Telereporter e poi a Mediaset, lui ha voluto a tutti i costi entrare in politica.
L’occasione per il debutto arriva con la nascita della provincia di Monza e Brianza. Il 7 giugno 2009 Federico è eletto nelle file del Pdl. Come il padre si da un gran da fare. E’ membro di tre commissioni su nove: energia e ambiente, personale e affari generali, finanze e bilancio. Inoltre propone, con altri tre consiglieri, di candidare Silvio Berlusconi al premio Nobel per la Pace. Le motivazioni? “Le attività svolte in prima persona per il rispetto dei diritti dell’uomo e degli ideali democratici in favore della convivenza pacifica tra i popoli”.
La figlia Lucrezia, invece, sembra essere più propensa a seguire le passioni della madre, Patrizia Zea, seconda moglie di Romani. I due si sono conosciuti a Lombardia7. Lei, oggi 39enne, era una giovane e bellissima show girl che ebbe occasione di mostrare le sue qualità nel programma di Maurizia Paradiso prima, poi in Colpo Grosso di Umberto Smaila come ragazza cin cin. Una sorta di amore a prima vista coronato dalla nascita, 15 anni fa, di Lucrezia.
La giovane liceale dello Zaccaria, condivide con la madre la passione per i cavalli. Insieme hanno anche partecipato a qualche gara, seppur con scarsi risultati (un primo posto su 11 concorsi disputati). Lucrezia sempre in sella a Campari, la mamma a Fosbury Flop 3. Non frequenta la politica né ambienti politici. Solo una volta ha ceduto alle opportunità fornitele dal ruolo del padre: la prima alla Scala del 2009. Andò a vedere la Carmen. Venne notata nel foyer tra dame d’altra epoca per la sua giovane età e perché indossava un vestito poco consono all’evento: un abito nero corto su gambe svettanti. Ma si giustificò: “Scusate, sono giovane, il lungo non fa per me”. Come ribatterle. La notizia era piuttosto che una 14enne si aggirava nel museo delle cere pur di assistere all’opera di Bizet. Volontariamente. Insomma, di figli così c’è solo da esserne fieri.