Squilla il telefono. Una, due, tre volte. Squilla ancora. Pochi secondi e qualcuno dall’altra parte del filo inizia a parlare: “Avete fatto male a chiamare i carabinieri. Perché io quello che devo fare lo farò, ditelo pure al signor Manzi”. Una minaccia. L’ennesima di tante. Non sarà l’ultima, ma certo i toni e il contenuto hanno il sapore acre di una scelta definitiva. Forse irrevocabile. Per questo Frediano Manzi ha paura davvero. Lui che da presidente dell’associazione Sos racket e usura ha denunciato boss, picciotti e padrini del racket. A Milano e in tutta Italia. Ora, però, non ci sta più. Si chiude. Perché il silenzio delle istituzioni è ormai diventato insopportabile. E adesso sul sito dell’associazione compare un’enorme scritta bianca su sfondo nero: “Chiuso per mafia”.
Per Manzi le ultime ventiquattro ore sono state terribili. Ieri mattina, ignoti hanno squarciato le ruote delle sue due auto. Poi quella telefonata devastante forma e nel contenuto. Non è finita: un noto imprenditore delle pompe funebri, già coinvolto nell’inchiesta Caronte del 2008, lo ha insultato al telefono accusandolo di dire menzogne quando denuncia per la seconda volta gli affari illegali del caro estinto. Una brutta storia su cui pesano gli intrecci politici che portano ai piani alti di palazzo Marino. Ancora prima ignoti si sono spacciati per carabinieri. Chiedevano di lui. Peccato che non erano militari. Ma la cronologia delle minacce è lunga e brutale. Ottobre 2009: qualcuno spara contro il suo chiosco di fiori a Parabiago. Dicembre 2009: un pacco bomba composto da un contenitore d’alcol con miccia viene trovato davanti alla sua casa di Nerviano. Febbraio 2010 qualcuno dà alle fiamme un suo furgone. Eppure, fino a oggi, tutto andava bene, tutto si poteva sacrificare nel nome della legalità.
Quelli passati, così, sono stati 18 anni di battaglie scandite a suon di denunce, oltre 500, che portano in calce la firma di Frediano Manzi. Non, però, l’indirizzo della sede, ma quello di casa sua. Perché qui sta lo scandalo, l’ennesimo, di certa politica lombarda che non vede la mafia e anzi fa di più, la nega ben oltre l’evidenza. Come da anni nega a Manzi una sede per ricevere le vittime del racket e dei clan.
Nel 1999, dopo solo due anni di vita, l’associazione viene cacciata dalla sua sede di via Piermarini, pieno centro di Milano. Bastano appena due minacce ricevute per spingere i democratici inquilini del palazzo a fare una petizione in cui la presenza di Manzi viene definita scomoda. Poco male. “Le Acli – racconta Manzi – mi offrirono una sede in via della Signora”. Anche qui alla macelleria mafiosa serve un piccolo attentato. “Le Acli mi dissero che dovevo andarmene”. E’ il 2001 e da qui in poi, per nove anni, l’unica associazione presente in Lombardia che produce denunce contro il racket, si trova senza una sede ufficiale.
E la politica? Non parla oppure delegittima. Come ha fatto il vicesindaco Riccardo De Corato oltre un anno fa. Sono i giorni dello scandalo sul racket delle case popolari. Alloggi occupati e riaffittati abusivamente a 3.000 euro. Manzi filma tutto dando fuoco alle polveri di un’indagine che in poco più di un anno cancella il clan siciliano dei Pesco egemone in zona Niguarda. Ma De Corato minimizza: “Il fenomeno è insesistente”. L’indagine invece va avanti e Manzi in pochi mesi porta in procura una dettagliatissima mappa del racket in diversi quartieri della città.
Di nuovo silenzio o prese in giro. Clamorosa l’uscita del sindaco Letizia Moratti che invita Manzi “a fare regolare domanda all’Aler”. Chi si spinge oltre è invece Marco Osnato, genero di Romano La Russa, consigliere comunale del Pdl e membro del cda di Aler, l’azienda regionale che gestisce le case popolari. Lui, Osnato, a Manzi propone una sede a Quarto Oggiaro, quartierer criminale alla periferia di Milano. Ma, tiene a specificare, solo quando la zona sarà stata rivalutata. Per capire si consiglia una visita in zona, magari tra via Lopez e via Pascarella, e oltre in piazzetta Capuana, passando, perché no, davanti al bar Quinto.
Manzi, però, va avanti a consegnare questionari sul racket casa per casa e a raccogliere denunce. Quelle, ad esempio, che fioccano dopo il maxiblitz di luglio contro la ‘ndrangheta. Imprenditori che parlano di mazzette da 40.000 euro da versare nelle tasche del boss latitante Vincenzo Mandalari. Parole incofessabili che squarciano il velo dell’omertà. Manzi registra, annota e denuncia. Fino a oggi. E oggi dice basta.