Un centinaio di beni immobili, 43 società di capitali con partecipazioni estere e ingentissimi patrimoni, più di 60 rapporti finanziari e decine di lussuosissime autovetture, oltre a uno splendido catamarano di 14 metri appena costruito. Totale: un miliardo e mezzo di euro, tremila miliardi delle vecchie lire, quasi come una manovra finanziaria di una grande Regione. Sta qui, in parte, il patrimonio di Vito Nicastri, 54enne imprenditore alcamese, messo sotto sequestro dalla Direzione Investigativa di Trapani su mandato del Tribunale di Trapani.
Gli investigatori, guidati dal generale Antonio Girone, hanno ricostruito il fitto reticolo patrimoniale di Nicastri, tornando indietro di oltre 30 anni. Il risiko finanziario finito sotto la lente dell’antimafia dimostra una grande sperequazione tra i redditi dichiarati dall’imprenditore alcamese e quelli effettivamente accumulati. Ombre e sospetti, dunque. E un tesoretto che viaggia in parallelo con le frequentazioni dell’imprenditore, considerate contigue agli ambienti mafiosi.
Ne ha fatta di strada Vito Nicastri. Partito come semplice elettricista negli anni ’70, fa parlare di se già nel 1994, quando resta invischiato nella Tangentopoli siciliana. Fin da subito, il suo business è strettamente legato al campo delle energie rinnovabili: prima col fotovoltaico, poi con l’eolico e negli ultimi tempi, di nuovo nel settore dei pannelli solari. Nicastri è l’inventore della figura dello “sviluppatore”: parchi eolici e fotovoltaici forniti chiavi in mano alle grosse aziende energetiche.
L’ex elettricista alcamese era diventato un mago nell’ottenere concessioni dallo Stato (concessioni che in certi casi erano state negate persino all’Enel), acquistare terreni, costruire i parchi eolici e poi cederli “tutto incluso” ai grandi colossi del settore. Proprio per questo addirittura l’autorevole Financial Times lo aveva soprannominato come “il signore del vento”. Affari che portavano nelle tasche di Vito Nicastri decine di milioni di guadagno netto, come lui stesso ammetteva orgoglioso nelle interviste .
Affari che undici mesi fa interessano anche la Procura d’Avellino che spicca un mandato di cattura per Nicastri con l’accusa di truffa allo Stato. Già in quel frangente emergono le possibili frequentazioni di Nicastri con Mario Giuseppe Scinardo, mafioso del clan messinese dei Rampulla, lo stesso clan che fornì il detonatore per la strage di Capaci. Non è finita. Perché vengono alla luce anche i rapporti con le potentissime ‘ndrine calabresi di Platì, San Luca e Africo.
Il sequestro preventivo dei beni del Nicastri, a cui la DIA lavorava dal dicembre 2009, è sintomo evidente di una fondata e più che attuale contiguità con gli ambienti di Cosa Nostra trapanese, retta ancora dal latitante Matteo Messina Denaro. Il procuratore di Palermo, Francesco Messineo sottolinea come “sottrarre i beni a Cosa Nostra è di basilare importanza per la lotta alla criminalità, come dimostrano le operazioni contro Giuseppe Grigoli e Rosario Cascio, anche loro vicinissimi a Matteo Messina Denaro.”
D’altronde come dice lo stesso generale Girone “per Cosa Nostra è più semplice sostituire un adepto arrestato, che un patrimonio”. Soprattutto se si tratta di un patrimonio di queste proporzioni. Un sequestro record – sicuramente il più ingente degli ultimi anni -paragonabile soltanto a certi maxi sequestri ai grossi imprenditori edili del passato, nella Palermo dei Lima e dei Vito Ciancimino. Un sequestro che però rappresenta soltanto la prima tappa delle indagini, che cercheranno di gettare luce sulla florida realtà economico criminale della Sicilia occidentale. Una realtà al cui vertice c’è sempre lui: l’inafferrabile Matteo Messina Denaro.
di Giuseppe Pipitone