Ballarò di ieri sera, litania: bisogna giudicare B. non per la sua vita privata ma per quello che fa al governo. Accettiamo il consequenzialismo, e spingiamolo fino in fondo. Quali le ripercussioni dell’agire di B.? Primo, la stampa estera è scandalizzata. “Unfit to lead Italy”, diceva un tempo l’Economist. Ma ora ci ridono dietro, nel migliore dei casi. E reputano l’Italia un paese ormai perduto. Secondo, il presidente della Camera è scandalizzato. Bocchino sembra uno del Pd, tanto che verrebbe da dar ragione a Lupi: dov’era Fli quando B. proponeva unicamente leggi ad personam come azione di governo? In ogni caso, la fiducia che Fini ripone nel governo sembra ormai esaurita. Terzo, Mubarak (almeno immaginiamo) è imbarazzato. Quarto, i gay sono imbestialiti. Quinto, qualsiasi escort in Italia, oggi, può tranquillamente asserire di essere stata con B. anche se non è vero: tanto un’eventuale difesa di B. appare meno credibile delle più mirabolanti dichiarazioni che le tante Ruby potrebbero fare, anche mentendo.

Un politico dovrebbe non solo saper governare bene, ma anche – e solo, talvolta – saper governare. In queste condizioni, anche senza considerare l’aspetto etico della vicenda, B. non è in grado di governare. Sa solo chiamare in causa il Fondo Monetario Internazionale, non per dire che è stato obbligato a una manovra restrittiva, ma per vantarsi del sostegno ricevuto da un’istituzione che la sua credibilità l’ha persa per ben due volte, con le crisi finanziarie degli anni Novanta e con l’assurda ostinazione su quelle “riforme strutturali” (flessibilità del lavoro, riforma delle pensioni, ecc.) che oggi impediscono all’Occidente di attuare politiche di rilancio. Berlusconi è come il Fondo, senza credibilità. Con l’attacco ai gay, l’ha persa del tutto. Quando ci si difende spiegando che è “meglio essere appassionato di belle ragazze che gay”, si dichiara con orgoglio di non voler essere il presidente che rappresenta tutti gli Italiani, si crea un nemico tra i cittadini stessi (non più i terroristi, dunque, né gli immigrati, clandestini o meno). Naturalmente, lo si fa per ottenere il consenso degli altri, come in ogni dittatura che (non) si rispetti. Magari gridando di essere il partito dell’amore, fondato sui tanti cittadini “che cercano una causa fondata sull’amore, sulla giustizia e sulla libertà. Una causa che, con la forza invincibile degli ideali più nobili, trionfi sulla violenza, gli estremismi e l’odio” – ma non ci si inganni: queste parole non sono di B., sono di Jorge Rafael Videla, il dittatore argentino a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta (“I mondiali della vergogna”, di Pablo Llonto, sono piuttosto istruttivi al riguardo).

La cacciata di B. è un’occasione propizia per ridare credibilità al paese. Gli unici esempi di credibilità arrivano oggi da quei settori che, con il loro, difendono un interesse che non può che coincidere con quello generale – i disoccupati, i precari della ricerca, i magistrati, ecc. –, perché ne va della loro libertà, e dunque della libertà di tutti. Si faccia uno sforzo di chiarezza, tutti, per una volta: basta con la retorica del “parliamo dei problemi veri del paese”, se non si riesce a parlarne è anche, e soprattutto, per colpa del macigno-B. Se ne liberi Fini, se ne liberi il povero Lupi, se ne liberi l’Italia, se ne liberi persino la Chiesa, dalla quale sarebbe doveroso attendersi una presa di posizione forte: se per Famiglia Cristiana il B. di Ruby è “indifendibile” e “malato”, lo è a maggior ragione il B. che divide il paese che governa tra gay e non. La fine di B., se mai arriverà, non sarà solo un sollievo, ma un’occasione di rinascita. Che B. ci aiuti (a farlo cadere).

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