E’ un rifiuto senza ambiguità della politica di Barack Obama quello che emerge dal voto di midterm. I repubblicani conquistano 60 seggi alla Camera. Avanzano prepotentemente al Senato. Si aggiudicano ben otto governorship prima detenuti dai democratici. Nella notte è arrivata anche la notizia che più ha fatto male al partito di Obama: la sconfitta del governatore Ted Strickland in Ohio. Il presidente e il suo vice Biden erano corsi proprio in Ohio, la notte prima delle elezioni, per sostenere Strickland. Un fatto simbolico, come simbolica è la perdita del seggio che fu di Obama in Illinois, passato al repubblicano Mark Kirk.
L’entità della batosta democratica va ben oltre la tradizionale emorragia di seggi che tocca al partito al potere nelle elezioni di medio termine. Qui la bocciatura appare senza appello. Era dal 1948 che i repubblicani non riuscivano a vincere in modo così largo. Nemmeno nel 1994, ai tempi della rivoluzione conservatrice guidata da Newt Gingrich, il risultato era stato così, per loro, confortante. Una prima veloce analisi dei flussi mostra che praticamente tutti i distretti elettorali degli Stati Uniti si sono spostati a destra. I democratici hanno perso il voto dei giovani, delle donne, dei neri, degli indipendenti. Aree elettorali chiave, in Ohio, Virginia, Pennsylvania – quelle abitate da un proletariato e da una piccola borghesia bianca che i democratici erano riusciti a riconquistare nel 2006 e nel 2008 – tornano in massa ai repubblicani. E, altro fatto altamente simbolico, i repubblicani riescono a rompere il monopolio democratico nel New England. Due seggi alla Camera in New Hampshire passano infatti ai conservatori.
Il carattere storico della vittoria repubblicana era chiaro, ieri sera, nelle lacrime di John Boehner, deputato dell’Ohio, destinato a diventare lo speaker della Camera al posto di Nancy Pelosi. “Il popolo ha parlato”, ha detto Boehner, presentatosi in conferenza stampa mentre lo spoglio dei voti era ancora in corso. Il suo tono, più prudente che magniloquente, l’emozione che si è presto rotta nelle lacrime. “Vinciamo soprattutto sull’onda della rabbia per i democratici”, ha spiegato lo stratega repubblicano Dan Bartlett. In più, il rapporto con il Tea Party appare un’incognita. Il movimento anti-tasse e anti-governo centrale ha svolto una funzione importantissima nella mobilitazione degli elettori di tutta America, e centrato due ottimi risultati con la vittoria di Marco Rubio in Florida e di Rand Paul in Kentucky. Ma il Tea Party si è anche dimostrato un problema, e un ostacolo. Il carattere estremo, radicale, di alcuni suoi rappresentanti, soprattutto sui temi della morale e della religione, ha impedito ai repubblicani di conquistare la maggioranza anche al Senato.
Per i democratici, inizia a questo punto la resa dei conti. Con un tasso di disoccupazione al 9,6%, e l’umore del Paese che tutti i sondaggi descrivono cupo e arrabbiato, la sconfitta del partito al potere appariva prevedibile. Ma qui, ieri, hanno perso davvero tutti, democratici di ogni tipo e orientamento: quelli conservatori come Blanche Lincoln, senatrice dell’Arkansas, nemica della sanità pubblica che Obama voleva votare; quelli centristi come Tom Perriello, uno dei più fedeli alleati del presidente, allineato a ogni richiesta della Casa Bianca, punito dagli elettori della Virginia: e infine quelli più a sinistra come Russ Feingold, colonna dei progressisti di tutta America, al Senato dal 1993, battuto in Wisconsin da Ron Johnson, un industriale della plastica senza nessuna esperienza politica, su cui si sono riversati milioni di dollari dai gruppi conservatori.
L’entità della sconfitta è tale che una messa in discussione del presidente appare inevitabile, dalla destra e dalla sinistra del partito. La leadership, il carisma di Obama, il suo appello avvolgente al “change”, appare un ricordo. Ovunque sia andato, durante questa campagna elettorale, il presidente non è riuscito a mettersi in sintonia con l’elettorato, non è riuscito a “vendere” le sue riforme: sanità, ambiente, finanza. Gli stessi democratici in corsa per la riconferma sembravano preferirgli, come testimonial nei loro comizi, il vecchio presidente Bill Clinton (che si è impegnato particolarmente in West Virginia, che non a caso resta ai democratici). Fonti non ufficiali della Casa Bianca descrivono un Obama particolarmente depresso, e sfiduciato. Il silenzio di Hillary Clinton appare un altro segno di una possibile riapertura di scontri e conflitti nel partito democratico. Per tutta la leadership del partito, il tempo a disposizione resta pochissimo. A gennaio si apre la campagna per le presidenziali 2012.
di Roberto Festa, inviato negli Stati Uniti
una collaborazione Il Fatto e Dust
Mondo
Usa, i democratici non
perdevano così dal 1948
La batosta democratica va oltre la sconfitta che tocca al partito al potere. I democratici tengono al Senato ma escono distrutti dal Congresso
L’entità della batosta democratica va ben oltre la tradizionale emorragia di seggi che tocca al partito al potere nelle elezioni di medio termine. Qui la bocciatura appare senza appello. Era dal 1948 che i repubblicani non riuscivano a vincere in modo così largo. Nemmeno nel 1994, ai tempi della rivoluzione conservatrice guidata da Newt Gingrich, il risultato era stato così, per loro, confortante. Una prima veloce analisi dei flussi mostra che praticamente tutti i distretti elettorali degli Stati Uniti si sono spostati a destra. I democratici hanno perso il voto dei giovani, delle donne, dei neri, degli indipendenti. Aree elettorali chiave, in Ohio, Virginia, Pennsylvania – quelle abitate da un proletariato e da una piccola borghesia bianca che i democratici erano riusciti a riconquistare nel 2006 e nel 2008 – tornano in massa ai repubblicani. E, altro fatto altamente simbolico, i repubblicani riescono a rompere il monopolio democratico nel New England. Due seggi alla Camera in New Hampshire passano infatti ai conservatori.
Il carattere storico della vittoria repubblicana era chiaro, ieri sera, nelle lacrime di John Boehner, deputato dell’Ohio, destinato a diventare lo speaker della Camera al posto di Nancy Pelosi. “Il popolo ha parlato”, ha detto Boehner, presentatosi in conferenza stampa mentre lo spoglio dei voti era ancora in corso. Il suo tono, più prudente che magniloquente, l’emozione che si è presto rotta nelle lacrime. “Vinciamo soprattutto sull’onda della rabbia per i democratici”, ha spiegato lo stratega repubblicano Dan Bartlett. In più, il rapporto con il Tea Party appare un’incognita. Il movimento anti-tasse e anti-governo centrale ha svolto una funzione importantissima nella mobilitazione degli elettori di tutta America, e centrato due ottimi risultati con la vittoria di Marco Rubio in Florida e di Rand Paul in Kentucky. Ma il Tea Party si è anche dimostrato un problema, e un ostacolo. Il carattere estremo, radicale, di alcuni suoi rappresentanti, soprattutto sui temi della morale e della religione, ha impedito ai repubblicani di conquistare la maggioranza anche al Senato.
Per i democratici, inizia a questo punto la resa dei conti. Con un tasso di disoccupazione al 9,6%, e l’umore del Paese che tutti i sondaggi descrivono cupo e arrabbiato, la sconfitta del partito al potere appariva prevedibile. Ma qui, ieri, hanno perso davvero tutti, democratici di ogni tipo e orientamento: quelli conservatori come Blanche Lincoln, senatrice dell’Arkansas, nemica della sanità pubblica che Obama voleva votare; quelli centristi come Tom Perriello, uno dei più fedeli alleati del presidente, allineato a ogni richiesta della Casa Bianca, punito dagli elettori della Virginia: e infine quelli più a sinistra come Russ Feingold, colonna dei progressisti di tutta America, al Senato dal 1993, battuto in Wisconsin da Ron Johnson, un industriale della plastica senza nessuna esperienza politica, su cui si sono riversati milioni di dollari dai gruppi conservatori.
L’entità della sconfitta è tale che una messa in discussione del presidente appare inevitabile, dalla destra e dalla sinistra del partito. La leadership, il carisma di Obama, il suo appello avvolgente al “change”, appare un ricordo. Ovunque sia andato, durante questa campagna elettorale, il presidente non è riuscito a mettersi in sintonia con l’elettorato, non è riuscito a “vendere” le sue riforme: sanità, ambiente, finanza. Gli stessi democratici in corsa per la riconferma sembravano preferirgli, come testimonial nei loro comizi, il vecchio presidente Bill Clinton (che si è impegnato particolarmente in West Virginia, che non a caso resta ai democratici). Fonti non ufficiali della Casa Bianca descrivono un Obama particolarmente depresso, e sfiduciato. Il silenzio di Hillary Clinton appare un altro segno di una possibile riapertura di scontri e conflitti nel partito democratico. Per tutta la leadership del partito, il tempo a disposizione resta pochissimo. A gennaio si apre la campagna per le presidenziali 2012.
di Roberto Festa, inviato negli Stati Uniti
una collaborazione Il Fatto e Dust
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sono alle prese col Tea Party
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Roma, 20 feb. (Adnkronos) - "Tweet invecchiati male: un sottosegretario alla giustizia che attacca i magistrati che lo condannano. E la Meloni sta con lui. Dalla Repubblica delle Banane è tutto". Lo scrive Matteo Renzi sui social postando un tweet di Andrea Delmastro del 2015 in cui scriveva: "Renzi contro la magistratura. Esiste qualcosa che non sappia di berlusconismo con 20 anni di ritardo? #figliodiberlusconi".
Roma, 20 feb. (Adnkronos) - “Lo scontro tra i ministri Lollobrigida e Piantedosi sulla vicenda Bari conferma l’arroganza e lo scarso senso dello Stato di questa destra. Un esponente come Lollobrigida avrebbe preteso, fuori da ogni regola e ignorando il lavoro della Commissione di accesso, di imporre al Ministro dell’Interno lo scioglimento del Comune di Bari. Fin dall’inizio la destra si è comportata in questo modo, ma tutto ha dimostrato l’infondatezza di queste accuse e manovre, il lavoro importante contro le mafie svolto da sindaco De Caro e presidente Emiliano. Non può essere che un ministro come Lollobrigida si comporti in questo modo. Chiameremo il Governo a risponderne”. Così il capogruppo Pd in commissione Antimafia Walter Verini.
Roma, 20 feb. (Adnkronos) - "Il sottosegretario alla giustizia Delmastro, condannato a otto mesi di carcere per rivelazione di segreto d’ufficio e un anno di interdizione dai pubblici uffici, ha dichiarato di non volersi dimettere. È senza vergogna. Se ne vada e lo faccia il prima possibile. Le istituzioni sono una cosa seria, non la proprietà privata di qualcuno”. Così sui social Antonio Misiani della segreteria del Partito Democratico.
Milano, 20 feb. (Adnkronos) - I carabinieri hanno raccolto tutte le dichiarazioni rese dagli staff e direttamente dagli imprenditori contattati dal gruppo di truffatori che usando il nome del ministro della Difesa Guido Crosetto hanno tentato raggiri milionari. La banda ha contattato almeno una decina delle famiglie più note e ricche in Italia, tra cui Massimo Moratti (l'unica vittima che ha denunciato il raggiro subito), Marco Tronchetti Provera, esponenti delle famiglie Beretta, Del Vecchio, Caprotti e Della Valle, lo stilista Giorgio Armani.
Una volta sentiti dai militari non tutte le persone che hanno risposto alle telefonate del finto ministro o del sedicente generale hanno deciso di sporgere denuncia. La procura di Milano che indaga sulle truffe sta proseguendo il lavoro sul fronte internazionale, per capire i movimenti bancari del denaro recuperato, mentre restano due gli indagati stranieri per associazione per delinquere finalizzata.
Roma, 20 feb. (Adnkronos) - "Delmastro è sottosegretario alla Giustizia, la sua condanna è grave già solo per questo. In più questa condanna arriva perché ha usato i suoi attuali poteri di sottosegretario per manganellare l'opposizione in Parlamento rivelando informazioni che non potevano essere rivelate. C'è un evidente e gigantesco problema politico. Non può restare al suo posto, è inaccettabile". Così Anna Ascani, Vicepresidente della Camera e deputata dem, intervenendo a Metropolis.
Roma, 20 feb. (Adnkronos) - “Senza disciplina. Senza onore. Doveva dimettersi ben prima, a prescindere dalla condanna. Ogni minuto di permanenza in carica di Delmastro è un insulto alle istituzioni”. Così sui social Peppe Provenzano della segreteria del Partito Democratico.
Roma, 20 feb. (Adnkronos) - Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto nel pomeriggio al Quirinale, in separate udienze, per la presentazione delle Lettere Credenziali, i nuovi Ambasciatori: S.E. Vladimir Karapetyan, Repubblica di Armenia; S.E. Roberto Balzaretti, Confederazione Svizzera; S.E. Francella Maureen Strickland, Stato Indipendente di Samoa; S.E. Amb. Matthew Wilson, Barbados; S.E. Augusto Artur António da Silva, Repubblica della Guinea Bissau; S.E. Noah Touray, Repubblica del Gambia; S.E. Richard Brown, Giamaica. Era presente il Vice Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Edmondo Cirielli. Si legge in una nota del Quirinale.