Auto elettrica? Bella, pulita ma ancora (quasi) impossibile, anche se la grandi major giapponesi, da Mitsubishi a Toyota, aspettano il momento giusto per l’affare miliardario: la riconversione di massa della mobilità a propulsione elettrica, una volta archiviata l’era del petrolio. Il problema principale si chiama litio: elemento essenziale per la produzione delle batterie, tuttora frenate da tecnologie arretrate. E il serbatoio mondiale del litio è annidato nel sottosuolo delle Ande, in Bolivia.
Oggi, gran parte del mondo economico punta gli occhi proprio sullo Stato di Evo Morales, Paese nel quale, secondo alcuni calcoli, risiede da un terzo alla metà delle riserve mondiali di litio. Un minerale noto non solo per essere il più leggero degli elementi solidi, ma anche per essere usato (oltre che come componente in farmaci antipsicotici) nella produzione di batterie per telefoni cellulari, computer portatili e, appunto, per auto elettriche.
Con un petrolio sempre più scarso e costoso, e con un’opinione pubblica mondiale sempre più preoccupata per gli effetti su salute e ambiente delle emissioni di gas serra, i colossi del mercato automobilistico vedono nel litio sia la possibilità di rilanciare la loro immagine (e quella di un settore in costante declino), sia quella di una possibile riconversione verde. Un verde che fa però pensare più ai dollari che all’ecologia.
L’estrazione del litio avrebbe infatti un impatto enorme sull’ambiente, sugli spettacolari scenari naturali (e, di conseguenza, sul turismo) dei paesi che, come appunto la Bolivia, hanno le principali riserve di quello che alcuni già chiamano l’«oro bianco del XXI secolo». Senza considerare il fatto che l’estrazione di questo minerale richiede un enorme uso di acqua che, a lungo andare, potrebbe provocare drammatiche crisi idriche. E sociali.
L’affare litio interessa profondamente multinazionali quali le giapponesi Mitsubishi e Toyota, per esempio, ma anche l’americana General Motors e la francese Bollorè. Il Presidente socialista Morales e il suo governo, invece, detenendo il 60% di tutte le aziende nazionali boliviane, si trovano tra le mani la possibilità di definire le sorti future del proprio Paese, nel quale in molti si prospettano affari milionari (così come in tutte le nazioni con importanti riserve di questo prezioso minerale).
Le ambizioni di politica e industria sembrerebbero quindi sposarsi con il sogno di città più pulite e silenziose, o con l’immagine di un mondo non più assoggettato all’accaparramento ed al consumo di petrolio. Ma siamo sicuri che ciò avverrà nell’arco dei prossimi anni? Forse no, perché la realtà, per il momento, continua ad essere diversa.
Secondo l’Engineering & Technology magazine, infatti, mentre le performance di apparecchi quali computer portatili, cellulari e fotocamere sono aumentate del 10mila per cento negli ultimi 35 anni, quelle delle batterie non hanno fatto lo stesso. Oggi la loro durata è solo il sestuplo di quella che avevano un secolo fa. Un limite enorme per l’auspicato successo delle auto elettriche, unito al fatto che queste, con un’autonomia di poco superiore ai 160km, arrivano a costare diverse migliaia di euro più delle loro concorrenti diesel o a benzina.
«Questo squilibrio ha importanti implicazioni per le auto elettriche», afferma Dickon Ross, caporedattore della rivista britannica, e «molti automobilisti non considereranno l’idea di sostituire la loro auto “a petrolio” con un modello elettrico, fino a che le differenze di prezzo e di prestazioni non si ridurranno drasticamente». Inoltre, «con la maggior quantità dell’elettricità prodotta da fonti non-rinnovabili almeno per i prossimi 10 anni – continua Ross – un veicolo elettrico potrebbe contribuire alle emissioni di CO2 più di quanto non faccia un odierno modello diesel ad alta efficienza».
I problemi legati all’inquinamento atmosferico delle nostre città, i limiti di pm10 sforati, l’incessante rumore o le noie dovute alle targhe alterne potrebbero definitivamente fare parte dei nostri ricordi, se le auto elettriche non avessero tutti i problemi legati alle loro batterie. Problemi dovuti non solo a una tecnologia che le porta ad essere ancora troppo pesanti, costose ed inefficienti. Ma soprattutto alla loro produzione e smaltimento.
Andrea Bertaglio
Ambiente & Veleni
Auto elettriche, il business non ancora pronto. Ma è partita la caccia al litio della Bolivia
Oggi, gran parte del mondo economico punta gli occhi proprio sullo Stato di Evo Morales, Paese nel quale, secondo alcuni calcoli, risiede da un terzo alla metà delle riserve mondiali di litio. Un minerale noto non solo per essere il più leggero degli elementi solidi, ma anche per essere usato (oltre che come componente in farmaci antipsicotici) nella produzione di batterie per telefoni cellulari, computer portatili e, appunto, per auto elettriche.
Con un petrolio sempre più scarso e costoso, e con un’opinione pubblica mondiale sempre più preoccupata per gli effetti su salute e ambiente delle emissioni di gas serra, i colossi del mercato automobilistico vedono nel litio sia la possibilità di rilanciare la loro immagine (e quella di un settore in costante declino), sia quella di una possibile riconversione verde. Un verde che fa però pensare più ai dollari che all’ecologia.
L’estrazione del litio avrebbe infatti un impatto enorme sull’ambiente, sugli spettacolari scenari naturali (e, di conseguenza, sul turismo) dei paesi che, come appunto la Bolivia, hanno le principali riserve di quello che alcuni già chiamano l’«oro bianco del XXI secolo». Senza considerare il fatto che l’estrazione di questo minerale richiede un enorme uso di acqua che, a lungo andare, potrebbe provocare drammatiche crisi idriche. E sociali.
L’affare litio interessa profondamente multinazionali quali le giapponesi Mitsubishi e Toyota, per esempio, ma anche l’americana General Motors e la francese Bollorè. Il Presidente socialista Morales e il suo governo, invece, detenendo il 60% di tutte le aziende nazionali boliviane, si trovano tra le mani la possibilità di definire le sorti future del proprio Paese, nel quale in molti si prospettano affari milionari (così come in tutte le nazioni con importanti riserve di questo prezioso minerale).
Le ambizioni di politica e industria sembrerebbero quindi sposarsi con il sogno di città più pulite e silenziose, o con l’immagine di un mondo non più assoggettato all’accaparramento ed al consumo di petrolio. Ma siamo sicuri che ciò avverrà nell’arco dei prossimi anni? Forse no, perché la realtà, per il momento, continua ad essere diversa.
Secondo l’Engineering & Technology magazine, infatti, mentre le performance di apparecchi quali computer portatili, cellulari e fotocamere sono aumentate del 10mila per cento negli ultimi 35 anni, quelle delle batterie non hanno fatto lo stesso. Oggi la loro durata è solo il sestuplo di quella che avevano un secolo fa. Un limite enorme per l’auspicato successo delle auto elettriche, unito al fatto che queste, con un’autonomia di poco superiore ai 160km, arrivano a costare diverse migliaia di euro più delle loro concorrenti diesel o a benzina.
«Questo squilibrio ha importanti implicazioni per le auto elettriche», afferma Dickon Ross, caporedattore della rivista britannica, e «molti automobilisti non considereranno l’idea di sostituire la loro auto “a petrolio” con un modello elettrico, fino a che le differenze di prezzo e di prestazioni non si ridurranno drasticamente». Inoltre, «con la maggior quantità dell’elettricità prodotta da fonti non-rinnovabili almeno per i prossimi 10 anni – continua Ross – un veicolo elettrico potrebbe contribuire alle emissioni di CO2 più di quanto non faccia un odierno modello diesel ad alta efficienza».
I problemi legati all’inquinamento atmosferico delle nostre città, i limiti di pm10 sforati, l’incessante rumore o le noie dovute alle targhe alterne potrebbero definitivamente fare parte dei nostri ricordi, se le auto elettriche non avessero tutti i problemi legati alle loro batterie. Problemi dovuti non solo a una tecnologia che le porta ad essere ancora troppo pesanti, costose ed inefficienti. Ma soprattutto alla loro produzione e smaltimento.
Andrea Bertaglio
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Mondo
A Gaza è finita la tregua: Israele colpisce Hamas sulla Striscia. “Oltre 350 morti, molti bambini”. Tel Aviv: “Colpiremo fino alla restituzione di tutti gli ostaggi”
Da Il Fatto Quotidiano in Edicola
Trump-Putin, oggi la telefonata. Media: “Usa pensano a riconoscere la Crimea come russa”. Tasse e debito: corsa al riarmo dell’Est Europa
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“Borse Hermès false regalate a Pascale”, Santanchè ora denuncia. E come testimone citerà Sallusti
(Adnkronos) - Serie di attacchi aerei di Israele nella Striscia di Gaza, ripresi nella notte su ordine di Benjamin Netanyahu, che ha ordinato "la ripresa della guerra" contro Hamas, dopo che gli sforzi per estendere il cessate il fuoco sono falliti. Il bilancio delle vittime continua a salire. Secondo il direttore del ministero della Sanità della Striscia, Mohammed Zaqout, i morti sono saliti "ad almeno 330, per la maggior parte donne e bambini palestinesi, mentre i feriti sono centinaia"
Secondo quanto appreso dall'Afp da due fonti del movimento di resistenza islamico, tra le vittime c'è anche il generale di divisione Mahmoud Abu Watfa, che era a capo del ministero dell'Interno del governo di Hamas.
L'ufficio del primo ministro Netanyahu ha dichiarato che lui e il ministro della Difesa Israel Katz hanno dato istruzioni alle Forze di Difesa Israeliane (Idf) di intraprendere “un'azione forte contro l'organizzazione terroristica di Hamas” nella Striscia di Gaza. “Questo fa seguito al ripetuto rifiuto di Hamas di rilasciare i nostri ostaggi, così come al suo rifiuto di tutte le proposte ricevute dall'inviato presidenziale statunitense Steve Witkoff e dai mediatori”, ha dichiarato l'ufficio di Netanyahu in un post su X. “Israele, d'ora in poi, agirà contro Hamas con una forza militare crescente”, ha dichiarato l'ufficio di Netanyahu in una dichiarazione riportata dal Times of Israel, aggiungendo che i piani per la ripresa delle operazioni militari sono stati approvati la scorsa settimana dalla leadership politica.
Israele continuerà a combattere a Gaza "fino a quando gli ostaggi non saranno tornati a casa e non saranno stati raggiunti tutti gli obiettivi", ha affermato Katz.
La Casa Bianca dal canto suo ha confermato che Israele ha consultato l'amministrazione americana prima di lanciare la nuova ondata di raid. "Hamas avrebbe potuto rilasciare gli ostaggi per estendere il cessate il fuoco, invece ha scelto il rifiuto e la guerra", ha detto il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, Brian Hughes, al Times of Israel, dopo la ripresa dei raid israeliani contro la Striscia di Gaza.
Dal canto suo Hamas ha dichiarato che Netanyahu, con la sua decisione di "riprendere la guerra", "ha condannato a morte gli ostaggi" che si trovano ancora a Gaza. "Netanyahu e il suo governo estremista hanno deciso di sabotare l'accordo di cessate il fuoco - accusa il movimento in una nota - La decisione di Netanyahu di riprendere la guerra è la decisione di sacrificare i prigionieri dell'occupazione e di imporre loro la condanna a morte”. Hamas denuncia poi che il premier israeliano continua a usare la guerra a Gaza come "una scialuppa di salvataggio" per distrarre dalla crisi politica interna.
Hamas ha quindi esortato i mediatori internazionali a “ritenere l'occupazione israeliana pienamente responsabile della violazione dell'accordo” e ha sottolineato la necessità di “fermare immediatamente l'aggressione”.
Il cessate il fuoco era rimasto in vigore per circa due settimane e mezzo dopo la conclusione della prima fase, mentre i mediatori lavoravano per mediare nuovi termini per l'estensione della tregua. Hamas ha insistito per attenersi ai termini originali dell'accordo, che sarebbe dovuto entrare in vigore nella sua seconda fase all'inizio del mese. Questa fase prevedeva che Israele si ritirasse completamente da Gaza e accettasse di porre fine definitivamente alla guerra in cambio del rilascio degli ostaggi ancora in vita. Sebbene Israele abbia firmato l'accordo, Netanyahu ha insistito a lungo sul fatto che Israele non porrà fine alla guerra fino a quando le capacità militari e di governo di Hamas non saranno state distrutte. Di conseguenza, Israele ha rifiutato anche solo di tenere colloqui sui termini della fase due, che avrebbe dovuto iniziare il 3 febbraio.
Gli Houthi dello Yemen "condannano la ripresa dell'aggressione del nemico sionista contro la Striscia di Gaza". "I palestinesi non verranno lasciati soli in questa battaglia e lo Yemen continuerà con il suo sostegno e la sua assistenza e intensificherà il confronto", minaccia il Consiglio politico supremo degli Houthi, che da anni l'Iran è accusato di sostenere, come riportano le tv satellitari arabe.
Genova, 18 mar. (Adnkronos) - Tragedia nella notte a Genova in via Galliano, nel quartiere di Sestri Ponente, dove un ragazzo di 29 anni è morto in un incendio nell'appartamento in cui abitava. L'incendio ha coinvolto 15 persone di cui quattro rimaste ferite, la più grave la madre del 29enne, ricoverata in codice rosso al San Martino. Altre tre persone sono state ricoverate in codice giallo all'ospedale di Villa Scassi. Sul posto la polizia che indaga sulla dinamica.
Dalle prime informazioni si sarebbe trattato di un gesto volontario del giovane che si sarebbe dato fuoco.
Milano, 17 mar. (Adnkronos Salute) - Bergamo, 18 marzo 2020: una lunga colonna di camion militari sfila nella notte. Sono una decina in una città spettrale, le strade svuotate dal lockdown decretato ormai in tutta Italia per provare ad arginare i contagi. A bordo di ciascun veicolo ci sono le bare delle vittime di un virus prima di allora sconosciuto, Sars-CoV-2, in uscita dal Cimitero monumentale.
Quell'immagine - dalla città divenuta uno degli epicentri della prima, tragica ondata di Covid - farà il giro del mondo diventando uno dei simboli iconici della pandemia. Il convoglio imboccava la circonvallazione direzione autostrada, per raggiungere le città italiane che in quei giorni drammatici accettarono di accogliere i defunti destinati alla cremazione. Gli impianti orobici non bastavano più, i morti erano troppi. Sono passati 5 anni da quegli scatti che hanno sconvolto l'Italia, un anniversario tondo che si celebrerà domani. Perché il 18 marzo, il giorno delle bare di Bergamo, è diventato la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'epidemia di coronavirus.
La ricorrenza, istituita il 17 marzo 2021, verrà onorata anche quest'anno. I vescovi della regione hanno annunciato che "le campane di tutti i campanili della Lombardia" suoneranno "a lutto alle 12 di martedì 18 marzo" per "invitare al ricordo, alla preghiera e alla speranza". "A 5 anni dalla fase più acuta della pandemia continuiamo a pregare e a invitare a pregare per i morti e per le famiglie", e "perché tutti possiamo trovare buone ragioni per superare la sofferenza senza dimenticare la lezione di quella tragedia". A Bergamo il punto di partenza delle celebrazioni previste per domani sarà sempre lo stesso: il Cimitero Monumentale, la chiesa di Ognissanti. Si torna dove partirono i camion, per non dimenticare. Esattamente 2 mesi fa, il Comune si era ritrovato a dover precisare numeri e destinazioni di quei veicoli militari con il loro triste carico, ferita mai chiusa, per sgombrare il campo da qualunque eventuale revisione storica. I camion che quel 18 marzo 2020 partirono dal cimitero di Bergamo furono 8 "con 73 persone, divisi in tre carovane: una verso Bologna con 34 defunti, una verso Modena con 31 defunti e una a Varese con 8 defunti".
E la cerimonia dei 5 anni, alla quale sarà presente il ministro per le Disabilità Alessandra Locatelli, sarà ispirata proprio al tema della memoria e a quello della 'scoperta'. La memoria, ha spiegato nei giorni scorsi l'amministrazione comunale di Bergamo, "come atto necessario per onorare e rispettare chi non c'è più e quanto vissuto". La scoperta "come necessità di rielaborare, in una dimensione di comunità la più ampia possibile, l'esperienza collettiva e individuale che il Covid ha rappresentato".
Quest'anno è stato progettato un percorso che attraversa "tre luoghi particolarmente significativi per la città": oltre al Cimitero monumentale, Palazzo Frizzoni che ospiterà il racconto dei cittadini con le testimonianze raccolte in un podcast e il Bosco della Memoria (Parco della Trucca) che esalterà "le parole delle giovani generazioni attraverso un'azione di memoria". La Chiesa di Ognissanti sarà svuotata dai banchi "per rievocare la stessa situazione che nel 2020 la vide trasformata in una camera mortuaria". Installazioni, mostre fotografiche, momenti di ascolto e partecipazione attiva, sono le iniziative scelte per ricordare. Perché la memoria, come evidenziato nella presentazione della Giornata, "è la base per ricostruire".
Kiev, 17 mar. (Adnkronos) - Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato su X di aver parlato con il presidente francese Emmanuel Macron: "Come sempre scrive - è stata una conversazione molto costruttiva. Abbiamo discusso i risultati dell'incontro online dei leader svoltosi sabato. La coalizione di paesi disposti a collaborare con noi per realizzare una pace giusta e duratura sta crescendo. Questo è molto importante".
"L'Ucraina è pronta per un cessate il fuoco incondizionato di 30 giorni - ha ribadito Zelensky - Tuttavia, per la sua attuazione, la Russia deve smettere di porre condizioni. Ne abbiamo parlato anche con il Presidente Macron. Inoltre, abbiamo parlato del lavoro dei nostri team nel formulare chiare garanzie di sicurezza. La posizione della Francia su questa questione è molto specifica e la sosteniamo pienamente. Continuiamo a lavorare e a coordinare i prossimi passi e contatti con i nostri partner. Grazie per tutti gli sforzi fatti per raggiungere la pace il prima possibile".
Washington, 17 mar. (Adnkronos) - il presidente americano Donald Trump ha dichiarato ai giornalisti che il leader cinese Xi Jinping visiterà presto Washington, a causa delle crescenti tensioni commerciali tra le due maggiori economie mondiali. Lo riporta Newsweek. "Xi e i suoi alti funzionari" arriveranno in un "futuro non troppo lontano", ha affermato Trump.
Washington, 17 mar. (Adnkronos) - Secondo quanto riferito su X dal giornalista del The Economist, Shashank Joshi, l'amministrazione Trump starebbe valutando la possibilità di riconoscere la Crimea ucraina come parte del territorio russo, nell'ambito di un possibile accordo per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina.
"Secondo due persone a conoscenza della questione, l'amministrazione Trump sta valutando di riconoscere la regione ucraina della Crimea come territorio russo come parte di un eventuale accordo futuro per porre fine alla guerra di Mosca contro Kiev", si legge nel post del giornalista.
Tel Aviv, 17 mar. (Adnkronos) - Secondo un sondaggio della televisione israeliana Channel 12, il 46% degli israeliani non è favorevole al licenziamento del capo dello Shin Bet, Ronen Bar, da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu, rispetto al 31% che sostiene la sua rimozione. Il risultato contrasta con il 64% che, in un sondaggio di due settimane fa, sosteneva che Bar avrebbe dovuto dimettersi, e con il 18% che sosteneva il contrario.