Il bar all'angolo tra via Ampere e via Porpora

Droga, omicidi, estorsioni. E’ la ‘ndrangheta che a Milano ha dettato legge per oltre trent’anni. Cosche calabresi, ma anche padrini di Cosa nostra. Uniti. Anzi federati in una vera e propria holding del crimine sulla quale questa sera si sono abbattuti decine di anni di carcere. Si tratta della sentenza al processo Metallica, la prima maxi inchiesta di mafia al nord dopo i leggendari processi degli anni Novanta. Decine di udienze, altrettanti avvocati impegnati, trentacinque imputati, tutti protagonisti di un romanzo criminale in salsa meneghina. Un romanzo che simbolicamente accompagna la caduta morale di Milano.

Il dato è storico e sottolinea una volta di più quanto sia pesante la presenza dei clan nella ex capitale morale d’Italia. Così il giudice, in un’aula bunker gremita di aprenti, poco dopo le 18 ha pronunciato le condanne. Venticinque anni per Giuseppe Onorato, dette Pepè, anziano boss di Reggio Calabria, vero capo dell’organizzazione in grado di dividere e unire i propri picciotti a secondo delle esigenze. Un vecchietto malfermo che per anni è stato in grado di sedersi ai tavoli più importanti del crimine e del’impresa lombarda. Per lui il giudice ha manetnuto l’accusa di associazione mafiosa. Lo stesso vale per Antonio Ausilio (24 anni), Emilio Capone (18 anni), Giuseppe Trovato (20 anni), Vincenzo Pangallo (17 anni). Otto anni per Luigi Bonanno. Professione: broker della coca. Origini palermitane, Bonnano ha vissuto tutte le stagioni criminali all’ombra della Madonnina. A partire dalla Duomo connection passando per le alleanze con le cosche calabresi specializzate nei sequestri di persona. Dieci anni e sei mesi, invece, a Lorenzo Fornasini, personaggio molto vicino a Guglielmo Fidanzati, primogenito di quel Gaeatno, boss dell’Acquasanta, arrestato da latitante il 4 dicembre 2009.

Sono loro le anime nere di Milano che incrociano decine di storie criminali. Tutte con una caratteristica comune: il bar Ebony, vecchio locale alla milanese tra via Porpora e via Ampere. Ai suoi tavolini Onorato riceveva e distribuiva le ambasciate, pianificava estorsioni  e regolamenti di conti. Molto spesso in collaborazione con uomini di Cosa nostra come Guglielmo Fidanzati e Ugo Martello, più conosciuto come quel Tanino che per anni ha gestito gli uffici di via Larga 13, teatro di incontri tra imprenditori milanese e boss di Palermo. Erano gli anni del boom e della grande scalata immobiliare di Silvio Berlusconi.

Ma nell’inchiesta tra i vari personaggi c’e’ anche il nome di Sergio Landonio, il truffatore che rovinò Luigi Fasulo, il pilota italo-svizzero che nell’aprile 2002 si schiantò col suo piccolo aeroplano contro il Pirellone. Landonio (giudicato in abbreviato) era considerato il regista di un traffico di opere d’arte, alcune vere e altre false. Insieme a lui lavorava il gallerista Marco Semenzato, accusato di reimpiego di capitali provenienti dal malaffare investiti in 59 dipinti antichi e oggetti preziosi. I traffici e gli affari del gruppo dell’Ebony bar vennero a galla anche grazie alle dichiarazioni del pentito Luigi Cicalese, al quale sono stati peraltro contestati due omicidi tra cui quello dell’avvocatessa Maria Spinella e per i quali, insieme ad altre persone, è in corso il processo davanti alla corte d’assise.

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