Punto primo: l’economia è troppo importante perché venga abbandonata nelle mani degli economisti (e dei top manager). I sedicenti “esperti” della materia, quelli che conoscono (?) le ricette giuste (one best way, direbbe il duo Taylor-Ford) e poi – a posteriori – ti spiegano perché le cose sono andate in maniera diametralmente opposta a come avevano previsto; i presunti “titani d’impresa”, quelli che hanno in tasca (?) la soluzione “oggettiva” e poi ti accorgi che le loro scelte obbedivano semplicemente a criteri adattivi ed opportunistici. Eppure c’è sempre chi ha la spudoratezza di affermare (specie se “americanista credere-obbedire-combattere”, tipo Noisefromamerika) il principio fideistico che “non si deve disturbare il manovratore”.
Punto secondo: ho trascorso una non trascurabile parte dei miei trent’anni (trent’anni fa) in meeting di Confindustria e dintorni sulla “responsabilità sociale dell’impresa”, sul “profitto come misura di efficienza”. Ho pure organizzato (e una volta presieduto) quei convegni dei Giovani Imprenditori in cui si discuteva di “alleanze varie tra produttori”. Quei Giovani Imprenditori che negli anni Settanta si atteggiavano a punta avanzata della borghesia illuminata e ora si riuniscono a Capri o Santa Margherita, in rigorosa tenuta da rampanti, a celebrare i riti del revanscismo (e subito dopo fiondarsi in discoteca).
Forte di tali esperienze di vita vissuta (e qualche paginetta letta sull’argomento o magari scritta), ho maturato la convinzione che quanto davvero conta in materia di ricchezza prodotta e distribuita sono i puri e semplici rapporti di forza: si dice “efficienza” ma si legge “potere”. Il potere di presidiare varchi dove le persone sono costrette a passare, di monopolizzare opportunità.
Venendo a noi, le scelte della Fiat sono tali perché la controparte lavoratrice è troppo debole, mentre fortissime sono le pressioni degli investitori d’oltre oceano. Cui si aggiunge il viatico dei tipi come il ministro Sacconi, sulla cui pelle ancora bruciano gli schiaffoni presi quando era craxiano, e la voglia di annientare la controparte sindacale di chi non ha dimenticato le strizze di lontani Autunni Caldi. Ma queste ritorsioni vendicative sono solo il contorno, seppure sgradevole: il punto vero è che non ci sono più contrappesi all’opportunismo adattivo del signor Marchionne. E lui va dove lo porta il vento (dei tempi). Ferma restando la povertà di una ricetta che si fonda sull’aggressione di un fattore produttivo – il lavoro – che incide sul costo del prodotto in percentuali più che modeste (un 7%?).
Ma qui non siamo più in ambito di calcoli economici, ci troviamo nel campo della pura e cruda tecnologia del Potere; dove anche gli aspetti simbolici mantengono una loro importanza. In questa chiave chiarisco il motivo per cui – vecchio borghese di cultura liberale – dichiaro di stare dalla parte dell’unico soggetto che dà ancora segnali di non voler accettare lo stato generale delle cose: la Fiom. Per la semplice ragione che oggi solo questa struttura sindacale dimostra di poter svolgere un ruolo di contropotere nei confronti del pensiero unico di questi anni, al servizio di un mastodontico trasferimento di ricchezza dall’area centrale della società ai piani elevati. Il tutto raccontato come necessità economiche altamente opinabili, visto che trattasi di decisioni di potere su chi deve pagare il costo del capitalismo in crisi.
Un disegno avviato con la corsa alle localizzazioni produttive in luoghi dove esistevano o si creavano condizioni occupazionali tendenzialmente servili (in Cina l’ora lavorata costava 50 centesimi, contro i 25 dollari europei e nordamericani). Una sorta di dumping che presuppone come “oggettivo” quanto tale non è: la schiavitù dei lavoratori nelle aree di nuova industrializzazione.
Comunque, operazione che necessitava lo smantellamento di quella parte dell’organizzazione del lavoro che ancora si opponeva alla strategia. E così fu, con pezzi di sindacato che hanno accettato di salvare le proprie nomenclature adattandosi al ruolo di caporalato e i partiti storicamente vicini ai dipendenti che accettavano il principio perdente del “limitare i danni”. Magari facendo propria l’argomentazione imbrogliona che opporsi era “da conservatori”; quando il farlo è risultato subalternità bella e buona alle logiche controrivoluzionarie. O peggio: complicità.
Ecco la ragione per cui oggi nessuno parla più di “ruolo sociale dell’impresa”. Perché non c’è in campo un soggetto che imponga di parlarne grazie alla propria capacità di far pesare i propri rappresentati. Perché, essendo stato azzerato il conflitto, non si ritiene più necessario “tenere buono” chi può assicurare mediazione sociale, relazioni industriali purchessia.
Stare oggi dalla parte della Fiom significa auspicare in Italia la realizzazione di un riequilibrio nei rapporti di forza vigenti; in questa guerra non dichiarata dei potenti contro i senza potere, che non trova punti di riferimento nel quadro politico istituzionale. Anche a sinistra, dove ci si perde in manovre di palazzo fallimentari e si discute sui punti fissati dall’agenda delle priorità di Silvio Berlusconi.
Insomma, stare oggi da quella parte significa nient’altro che propugnare una democrazia normale.