Marchionne (A.D. Fiat) condiziona la permanenza della Fiat in Italia a contratti di lavoro “duri”. Offre una scelta. Da un lato il lavoro; dall’altro i valori sociali e democratici. Così sembra.
Marchionne sta bluffando (in parte). Sono convinto che accetterebbe di vincere senza stravincere – e di investire lo stesso in Italia – se il nostro movimento operaio non fosse in condizioni così pietose da invitarlo a tirare un po’ la corda. Il suo bluff, però, si avvale dei falsi luoghi comuni sulla globalizzazione che – ahimè! – circolano anche a sinistra.
Luciano Gallino, per dire, scrive da trent’anni su Repubblica che i costi del lavoro “dieci volte più bassi” in Cina (nel 2001 scriveva: “20 volte più bassi”, nel 1991: “trenta volte più bassi”) implicano necessariamente la deindustrializzazione e la rovina economica dell’Italia. Ci lascia col dilemma: Marchionne il cattivo, o l’Autarchia “torniamo al Medio Evo”? Non capisce questo stimato signore che il costo del lavoro non conta nulla per la competitività. Conta invece il costo per unità di prodotto. Se l’operaio cinese viene pagato 10$ al giorno e l’operaio italiano 100$, ma il cinese produce un solo paio di scarpe al giorno (costo al paio: 10$ + materiali), mentre un operaio italiano produce 25 identiche paia di scarpe al giorno (costo al paio: 100/25= 4$ + materiali), le scarpe italiane sono più competitive!
Questa era la parte facile. Ora arriva il bello.
Non si riesce soprattutto a spiegare a Lucio Gallino e C. che i costi per unità di prodotto sono sempre all’incirca simili nelle diverse aree del mondo, a causa di meccanismi automatici che – più o meno velocemente – riducono le discrepanze di competitività quando si formano. Se l’operaio cinese aumenta la sua produttività, aumentano anche i suoi salari. Prova: le bilance commerciali dei paesi a basso costo del lavoro non hanno una particolare tendenza a essere in surplus commerciale (il vero indicatore della competitività). Perché? Vi sono vari meccanismi di riequilibrio della competitività! Il più efficace sono i cambi. Per esempio: nel 2013 il nuovo Presidente USA Sarah Palin abolisce i sindacati e le norme di sicurezza sul lavoro e ambientali. Costi, prezzi del Made in USA scendono; molti comprano un biglietto low cost per New York (per fare la spesa); le vendite delle nostre imprese crollano. Ma… Prima di prendere l’aereo passeremo in banca per comprare i dollari necessari. Se lo facciamo in tanti, il dollaro comincerà a salire, a salire… fino a quando? Fino a quando il divario di competitività dei prodotti USA sarà stato eliminato. (Poi i cambi oscillano anche, o vengono manipolati, ma questa è un’altra questione). Quando il dollaro raggiunge il suo nuovo livello, lascia alcuni settori (imprese) più competitivi negli USA, ma altrettanti settori (imprese) dove noi siamo più competitivi. (Acquisti e le vendite di dollari si compensano). Le singole imprese dovranno sempre competere, ma il paese nel suo insieme, no.
Conseguenze: nell’era della globalizzazione, un paese può fissare i suoi standard ambientali e sociali in modo autonomo. Uaaah! Il costo degli standard c’è, ma non viene dalla globalizzazione: è il maggiore valore aggiunto usato per “pagare” gli standard, e che non può essere distribuito in salari e profitti. (è possibile dimostrare che la globalizzazione riduce questo costo!).
Cosa dicono Gallino, e Sl? “Il costo del lavoro più basso dei cinesi ci mette fuori mercato. Quindi la globalizzazione è disumana, l’economia è disumana, la logica del profitto, l’efficienza è disumana: chiudiamo la globalizzazione”. Cosa dicono la destra e i falchi di Confindustria? “Riduciamo gli standard, i salari, i diritti, sennò andiamo fuori mercato: declino, crollo, crisi”. Tutte c..zate! Ma Marchionne (un po’) ci marcia.
Il problema della perdita di competitività è più serio quando i cambi sono fissi. Ad esempio nell’area Euro i meccanismi di riequilibrio ci sono lo stesso, ma sono molto più lenti: l’inflazione (in Germania più alta che in Italia, Spagna e Irlanda); la perdita di ricchezza (in Italia, Spagna, Irlanda) che riduce la propensione ad importare; ecc. ecc. Sono meccanismi dolorosi; deflattivi. L’Italia si trova precisamente in questa situazione verso la Germania (ma non il Brasile e la Polonia). Marchionne prova a usare un altro meccanismo per recuperare competitività: aumentare la produttività oraria. “Eccellente!”, direbbe l’Avv. Agnelli, buonanima. Però… Marchionne, la Fiat, e ancor più il centrodestra che ci si accoda, provano ad approfittare di problemi reali – la perdita di competitività dell’Italia nei confronti della Germania, la debolezza del ciclo internazionale, la divisione dei sindacati, il governo di destra – per dare loro una soluzione esagerata. Qualcuno dice: meglio del nulla della sinistra!
P.S. La questione Fiat è noiosa per i non addetti ai lavori, ma è cruciale per il nostro paese: sul piano politico-elettorale, ed economico. Perciò mi riprometto di intervenire di nuovo, e presto, sulla questione. Questo è un post propedeutico sul rapporto fra globalizzazione e competitività, salari, occupazione, e standard.