Purché secessione sia. Un’intera provincia, quella di Belluno, tra le più leghiste d’Italia col 35 per cento di consensi per il Carroccio, chiede di traslocare dal Veneto al Trentino Alto Adige. Oltre 17.000 firme hanno costretto la giunta provinciale a pronunciarsi a favore del referendum, creando una pericolosa frattura all’interno della Lega nord che, al momento di votare, si è spaccata. In barba al capo, Umberto Bossi, quello del federalismo o morte, i leghisti del profondo nord chiedono la secessione, e questa volta dal nord.
Una corsa ai denari di cui possono godere province e regioni autonome? Ovvio che sì. Se la Lega crede nel federalismo fiscale, i leghisti dimostrano di trovarlo uno spauracchio. E puntano a quelle autonomie che i soldi li hanno già garantiti. La richiesta, unica, di una provincia intera che chiede il trasferimento, è motivata anche da una specificità molto più simile a quella del Trentino Alto Adige che al Veneto, uniti da quel patrimonio che sono le Dolomiti. Ma alla base resta la voglia di autodeterminarsi, lontani da Venezia e dal Veneto, e di non sopportare più i tagli, le poche risorse al turismo, il meno 25 per cento alla sanità in montagna, la chiusura dell’università di Feltre.
Così, insieme ad altri 500 comuni di confine, quasi tutti a maggioranza leghista, Belluno e la sua provincia dicono addio alla linea di Bossi, fino a oggi mai contraddetto, neppure sulle piccole questioni, pena l’espulsione, come avvenne qualche anno fa per Donato Manfroi e Paolo Bampo, parlamentari leghisti della prima ora, solo per citare le più eclatanti.
E non è che il senatur non si fosse pronunciato sull’argomento. Alla cena degli ossi, incalzato dai cronisti del Corriere delle Alpi, aveva detto: “L’autonomia è difficile, ma stiamo cercando di darvi un po’ di soldi in più, di aiutarvi, perché lo sappiamo cosa succede quanto si fa fatica e si vedono vicini che stanno bene come le province di Trento e Bolzano. Però dobbiamo portare a casa il federalismo fiscale, questa è la linea della Lega. E vedrete che le cose cambieranno”. Più o meno la risposta data da Luca Zaia, il presidente della Regione Veneto, in un primo quasi ironico nei confronti degli autonomisti, ma che ieri è stato costretto ad abbassare i toni: “Pensiamo al federalismo, quella è la nostra strada”.
Più esplicito ancora era stato il ministro Roberto Calderoli: “Il referendum? Cos’è ‘sta roba? Non se ne parla nemmeno. Con la riforma federalista, tutte le Province e le Regioni diventeranno speciali, autonome, quindi non c’è alcun bisogno di questa fuga in avanti. Sarà in questo modo che risponderemo alle attese dei bellunesi”.
Ma da oggi la Lega dovrà fare i conti con la linea secessionista di uno dei suoi territori più cari e che forse aveva sottovalutato: con ventuno voti favorevoli (di cui uno “tecnico” del leghista Cesare Rizzi) e due contrari (Renza Buzzo Piazzetta e Gino Mondin, Lega) il Consiglio provinciale di Belluno ha approvato la richiesta di dare avvio all’iter per il referendum. Un referendum che dovrebbe portare, nelle intenzioni del Comitato e delle 17.500 persone che hanno firmato, al distacco della Provincia dalla Regione Veneto e alla aggregazione al Trentino Alto Adige. Nelle tre ore di discussione, seguite in diretta dalle tv locali, i consiglieri provinciali hanno parlato dei problemi del Bellunese: dallo spopolamento al disagio di vivere in montagna, alle disparità economiche che ci sono sono con i vicini del Trentino Alto Adige.
Ma cosa accadrà adesso dal punto di vista formale? Quello referendario è uno slogan o una possibilità concreta? Intanto la Provincia di Belluno dovrà avviare l’iter, inviando il pronunciamento dell’assemblea al ministero dell’Interno con la richiesta di indizione del referendum, in teoria entro sei mesi. Un referendum che, anche se previsto dall’articolo 132 della Costituzione, non si è mai svolto in questi termini. Il ministro poi dovrebbe trasferire il plico alla Cassazione, che verificherebbe l’ammissibilità del quesito e, se la risposta fosse positiva, un decreto del presidente della Repubblica indirrebbe il referendum nel giorno ritenuto più opportuno. Ma è ma molto probabile che le eccezioni vengano fatte sul nascere e che il referendum resterà solo una dimostrazione. Forte, ma pur sempre una dimostrazione politica che non avrebbe esito concreto.
Una grana, soprattutto per la Lega. Già, perché a Belluno vanno aggiunti gli altri 500 e passa Comuni, riuniti sotto la sigla dell’Asscomiconf, l’associazione dei Comuni di confine, che vogliono cambiare casa: chi sta in Veneto chiede l’Alto Adige, il Trentino o il Friuli Venezia Giulia, chi è in Piemonte in Lombardia vuole la Valle d’Aosta. E così via. Una secessione nelle roccaforti del partito che un’altra secessione, quella dal sud del Paese, l’ha predicata fin troppo. Fino a trovarsela, oggi, come un problema interno.
di Emiliano Liuzzi