Il consigliere del Csm Matteo Brigandì, membro laico in quota Lega, è indagato dalla procura di Roma per abuso d’ufficio in relazione all’inchiesta per la quale è stata eseguita oggi una perquisizione nell’abitazione della cronista de Il Giornale, Anna Maria Greco. L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Pierfilipo Laviani, è partita da una segnalazione ufficiale fatta dal Consiglio superiore della magistratura. Brigandì, secondo l’accusa, avrebbe passato documenti interni al Csm alla giornalista che ha poi redatto un articolo sul procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, dal titolo “La doppia morale di Boccassini”. A disporre le perquisizioni è stato il pubblico ministero Silvia Sereni. Il provvedimento è stato disposto per la presunta violazione dell’articolo 323 del codice penale, quello relativo all’abuso d’ufficio.
Brigandì non è nuovo agli onori delle cronache. Ex democristiano, ex socialista poi leghista. Ex avvocato di Umberto Bossi, “procuratore della Padania”, nel 2006 viene condannato in primo grado per truffa aggravata alla regione Piemonte. Memorabile, nell’occasione, la difesa d’ufficio di Bossi: “Se non è una questione di donne, Matteo è innocente”. E difatti Brigandì sarà poi definitivamente assolto nel 2009. Messinese di origine, trapiantato a Torino da piccolissimo, si porterà dietro il soprannome di “terrone” fino all’ingresso in Parlamento. Ma sarà proprio la considerazione per gli atteggiamenti con il gentil sesso a dargli notorietà. Come quando Striscia la notizia lo coglie a fare giochini poco consoni in pieno lavoro parlamentare: l’avvocato ha in mano un foglio di carta con un buco, le mani dietro mimano parti anatomiche… Il rapporto con le donne, del resto, gli costa ancora oggi un altro processo da affrontare. L’esponente leghista è infatti imputato in corte di Appello per violazione degli obblighi di assistenza nei confronti della figlia, oggi ventiduenne, quando questa aveva 15 anni. In primo grado è stato condannato a sei mesi con la condizionale, e durante il processo ha versato 28mila euro alla figlia. Ma il giudice lo condanna per gli anni precedenti. Ecco uno stralcio delle motivazioni della sentenza: “L’imputato negava di essersi disinteressato della figlia. Segnalava pure che aveva un reddito di 5mila euro mensili, che doveva mantenere un’altra figlia, che doveva una cospicua somma di denaro al partito di cui faceva parte”. Una giustificazione che non fa presa sulla corte: “Sul fatto che l’imputato sarebbe onerato da obblighi verso il partito… non pare si debbano spendere molte parole sulla priorità dei suoi obblighi”.
Ma torniamo a oggi. Secondo la procura di Roma, infatti, il leghista Matteo Brigandì è la talpa che ha permesso al quotidiano di Paolo Berlusconi di attaccare il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, titolare dell’indagine sul giro di prostitute legate al premier. Brigandì ha consultato un fascicolo sulla Boccassini vecchio di trent’anni. La sera del 25 gennaio, come risulta dalla foto che abbiamo pubblicato, partecipa al vertice del Pdl nell’abitazione romana di Silvio Berlusconi. Due giorni dopo, il Giornale (perquisita questa mattina la sede) pubblica un pezzo intitolato “La doppia morale di Ilda Boccassini”. All’incontro di Palazzo Grazioli, quel giorno ci sarà anche Valter Lavitola, l’editore dell’Avanti che a Santa Lucia ha investigato sulle società offshore che gestiscono l’appartamento di Montecarlo del cognato di Gianfranco Fini. E sempre 48 ore dopo dopo il ministro degli Esteri Franco Frattini interviene in Parlamento per parlare del caso Tulliani.
Il consigliere del Csm Brigandì nei giorni scorsi aveva ammesso di aver visionato il fascicolo sul procedimento disciplinare di Ilda Boccassini e aveva anche aggiunto di averlo restituito agli uffici di Palazzo dei Marescialli dopo pochi minuti escludendo di aver mai passato le carte ai giornalisti de Il Giornale. Lo stesso Brigandì, aveva chieste la settimana scorsa al vice presidente del Csm, Michele Vietti, di far luce sull’episodio. Come sia andata veramente cercheranno di capire i magistrati, che hanno anche fatto sigillare dai carabinieri i suoi uffici al Csm.
Immediata invece la replica di difesa del quotidiano: “Per l’ennesima volta la casta dei magistrati mostra il suo volto violento e illiberale”, è il primo commento del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. “La perquisizione nell’abitazione privata della collega Anna Maria Greco, autrice dell’articolo che conteneva sentenze pubbliche del Csm, non solo è un atto intimidatorio ma una vera e propria aggressione alla persona e alla libertà di stampa. Stupisce che soltanto le notizie non gradite ai magistrati inneschino una simile repressione quando i magistrati stessi diffondono a giornalisti amici e complici atti giudiziari coperti da segreto al solo scopo di infangare politici non graditi”.
E sulle perquisizioni è intervenuto anche Franco Siddi, segretario generale della Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana). “Oggettivamente, non se ne può più” ha detto. “Nello scontro politica-magistratura non possono essere chiamati a pagare i giornalisti se danno notizie, ancorché su di esse e sulla loro valenza in termini di interesse pubblico, ciascuno possa avere opinioni diverse”. La perquisizione di oggi, ha aggiunto, “a carico della collega appare, allo stato, assolutamente incomprensibile, oltreché, nei fatti, pesantemente invasiva. Le notizie ‘riservate’ non escono mai con le proprie gambe”. Ma, “se si volesse prendere a prestito una espressione del moderno linguaggio politico-giudiziario, si potrebbe dire che si va a cercare presunte colpe, neanche meglio precisate, nell’utilizzatore finale. Cosi non si può andare avanti”. E, conclude, “ai giornalisti è chiesto, tanto più in questa fase di scontro politico e istituzionale dai toni esasperati, di alzare l’asticella della responsabilità, per non fare la fine dei vasi di coccio. Ma occorre misura e rispetto, da parte di tutti”.
Come che sia, Matteo Brigandì rischia ora di essere sospeso dalla carica di consigliere del Csm. L’articolo 37 della legge del 1958 istitutiva del Csm prevede infatti che ogni consigliere del Csm può essere sospeso se sottoposto a un procedimento penale per un delitto non colposo; si tratta dunque di un provvedimento facoltativo, mentre la sospensione è “di diritto”, cioè automatica nel caso in cui un componente del Csm sia sottoposto alla custodia cautelare o arrestato. La decisione nei casi facoltativi spetta allo stesso organo di autogoverno dei magistrati. Su Brigandì, però, potrebbe anche abbattersi una tegola ancora più pesante, ma non in relazione all’inchiesta della procura di Roma: rischia di dover lasciare definitivamente il Csm se la Cassazione confermerà una delle due condanne che gli sono state inflitte in appello. Oltre alla violazione degli obblighi di assistenza familiare, infatti, l’ex avvocato di Bossi è sotto processo per diffamazione nei confronti di un direttore della Regione Piemonte. E’ ancora infatti la legge istitutiva del Csm a prevedere la “decadenza di diritto” qualora un componente del Csm sia stato condannato con sentenza irrevocabile per un delitto non colposo.
Media & Regime
Indagato consigliere del Csm, Matteo Brigandì
Secondo l'accusa ha consegnato le carte alla giornalista de Il Giornale per scrivere l'articolo su Ilda Boccassini
Il consigliere del Csm Matteo Brigandì, membro laico in quota Lega, è indagato dalla procura di Roma per abuso d’ufficio in relazione all’inchiesta per la quale è stata eseguita oggi una perquisizione nell’abitazione della cronista de Il Giornale, Anna Maria Greco. L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Pierfilipo Laviani, è partita da una segnalazione ufficiale fatta dal Consiglio superiore della magistratura. Brigandì, secondo l’accusa, avrebbe passato documenti interni al Csm alla giornalista che ha poi redatto un articolo sul procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, dal titolo “La doppia morale di Boccassini”. A disporre le perquisizioni è stato il pubblico ministero Silvia Sereni. Il provvedimento è stato disposto per la presunta violazione dell’articolo 323 del codice penale, quello relativo all’abuso d’ufficio.
Brigandì non è nuovo agli onori delle cronache. Ex democristiano, ex socialista poi leghista. Ex avvocato di Umberto Bossi, “procuratore della Padania”, nel 2006 viene condannato in primo grado per truffa aggravata alla regione Piemonte. Memorabile, nell’occasione, la difesa d’ufficio di Bossi: “Se non è una questione di donne, Matteo è innocente”. E difatti Brigandì sarà poi definitivamente assolto nel 2009. Messinese di origine, trapiantato a Torino da piccolissimo, si porterà dietro il soprannome di “terrone” fino all’ingresso in Parlamento. Ma sarà proprio la considerazione per gli atteggiamenti con il gentil sesso a dargli notorietà. Come quando Striscia la notizia lo coglie a fare giochini poco consoni in pieno lavoro parlamentare: l’avvocato ha in mano un foglio di carta con un buco, le mani dietro mimano parti anatomiche… Il rapporto con le donne, del resto, gli costa ancora oggi un altro processo da affrontare. L’esponente leghista è infatti imputato in corte di Appello per violazione degli obblighi di assistenza nei confronti della figlia, oggi ventiduenne, quando questa aveva 15 anni. In primo grado è stato condannato a sei mesi con la condizionale, e durante il processo ha versato 28mila euro alla figlia. Ma il giudice lo condanna per gli anni precedenti. Ecco uno stralcio delle motivazioni della sentenza: “L’imputato negava di essersi disinteressato della figlia. Segnalava pure che aveva un reddito di 5mila euro mensili, che doveva mantenere un’altra figlia, che doveva una cospicua somma di denaro al partito di cui faceva parte”. Una giustificazione che non fa presa sulla corte: “Sul fatto che l’imputato sarebbe onerato da obblighi verso il partito… non pare si debbano spendere molte parole sulla priorità dei suoi obblighi”.
Ma torniamo a oggi. Secondo la procura di Roma, infatti, il leghista Matteo Brigandì è la talpa che ha permesso al quotidiano di Paolo Berlusconi di attaccare il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, titolare dell’indagine sul giro di prostitute legate al premier. Brigandì ha consultato un fascicolo sulla Boccassini vecchio di trent’anni. La sera del 25 gennaio, come risulta dalla foto che abbiamo pubblicato, partecipa al vertice del Pdl nell’abitazione romana di Silvio Berlusconi. Due giorni dopo, il Giornale (perquisita questa mattina la sede) pubblica un pezzo intitolato “La doppia morale di Ilda Boccassini”. All’incontro di Palazzo Grazioli, quel giorno ci sarà anche Valter Lavitola, l’editore dell’Avanti che a Santa Lucia ha investigato sulle società offshore che gestiscono l’appartamento di Montecarlo del cognato di Gianfranco Fini. E sempre 48 ore dopo dopo il ministro degli Esteri Franco Frattini interviene in Parlamento per parlare del caso Tulliani.
Il consigliere del Csm Brigandì nei giorni scorsi aveva ammesso di aver visionato il fascicolo sul procedimento disciplinare di Ilda Boccassini e aveva anche aggiunto di averlo restituito agli uffici di Palazzo dei Marescialli dopo pochi minuti escludendo di aver mai passato le carte ai giornalisti de Il Giornale. Lo stesso Brigandì, aveva chieste la settimana scorsa al vice presidente del Csm, Michele Vietti, di far luce sull’episodio. Come sia andata veramente cercheranno di capire i magistrati, che hanno anche fatto sigillare dai carabinieri i suoi uffici al Csm.
Immediata invece la replica di difesa del quotidiano: “Per l’ennesima volta la casta dei magistrati mostra il suo volto violento e illiberale”, è il primo commento del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. “La perquisizione nell’abitazione privata della collega Anna Maria Greco, autrice dell’articolo che conteneva sentenze pubbliche del Csm, non solo è un atto intimidatorio ma una vera e propria aggressione alla persona e alla libertà di stampa. Stupisce che soltanto le notizie non gradite ai magistrati inneschino una simile repressione quando i magistrati stessi diffondono a giornalisti amici e complici atti giudiziari coperti da segreto al solo scopo di infangare politici non graditi”.
E sulle perquisizioni è intervenuto anche Franco Siddi, segretario generale della Fnsi (Federazione nazionale stampa italiana). “Oggettivamente, non se ne può più” ha detto. “Nello scontro politica-magistratura non possono essere chiamati a pagare i giornalisti se danno notizie, ancorché su di esse e sulla loro valenza in termini di interesse pubblico, ciascuno possa avere opinioni diverse”. La perquisizione di oggi, ha aggiunto, “a carico della collega appare, allo stato, assolutamente incomprensibile, oltreché, nei fatti, pesantemente invasiva. Le notizie ‘riservate’ non escono mai con le proprie gambe”. Ma, “se si volesse prendere a prestito una espressione del moderno linguaggio politico-giudiziario, si potrebbe dire che si va a cercare presunte colpe, neanche meglio precisate, nell’utilizzatore finale. Cosi non si può andare avanti”. E, conclude, “ai giornalisti è chiesto, tanto più in questa fase di scontro politico e istituzionale dai toni esasperati, di alzare l’asticella della responsabilità, per non fare la fine dei vasi di coccio. Ma occorre misura e rispetto, da parte di tutti”.
Come che sia, Matteo Brigandì rischia ora di essere sospeso dalla carica di consigliere del Csm. L’articolo 37 della legge del 1958 istitutiva del Csm prevede infatti che ogni consigliere del Csm può essere sospeso se sottoposto a un procedimento penale per un delitto non colposo; si tratta dunque di un provvedimento facoltativo, mentre la sospensione è “di diritto”, cioè automatica nel caso in cui un componente del Csm sia sottoposto alla custodia cautelare o arrestato. La decisione nei casi facoltativi spetta allo stesso organo di autogoverno dei magistrati. Su Brigandì, però, potrebbe anche abbattersi una tegola ancora più pesante, ma non in relazione all’inchiesta della procura di Roma: rischia di dover lasciare definitivamente il Csm se la Cassazione confermerà una delle due condanne che gli sono state inflitte in appello. Oltre alla violazione degli obblighi di assistenza familiare, infatti, l’ex avvocato di Bossi è sotto processo per diffamazione nei confronti di un direttore della Regione Piemonte. E’ ancora infatti la legge istitutiva del Csm a prevedere la “decadenza di diritto” qualora un componente del Csm sia stato condannato con sentenza irrevocabile per un delitto non colposo.
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Palermo, 12 mar. (Adnkronos) - "Affronterò il processo con la massima serenità e con la consapevolezza di poter dimostrare la correttezza del mio operato, avendo sempre agito nel pieno rispetto del regolamento previsto dall’Assemblea Regionale Siciliana. Non ho mai, nella mia vita, sottratto un solo centesimo in modo indebito e confido che nel corso del giudizio emergerà la verità, restituendo chiarezza e trasparenza alla mia posizione. Resto fiducioso nella giustizia e determinato a far valere le mie ragioni con il rispetto e la serietà che ho sempre riservato alle istituzioni". Così Gianfranco Miccichè, rinviato a giudizio per l'uso dell'auto blu, commenta il processo che partirà a luglio. "Sono però amareggiato da quanto la stampa riporta sul fatto che, secondo il pm avrei arraffato quanto più possibile- dice - Nella mia vita non ho mai arraffato alcun che e su questo pretendo rispetto da parte di tutti".
Palermo, 12 mar. (Adnkronos) - L'ex Presidente dell'Assemblea regionale siciliana Gianfranco Miccichè è stato rinviato a giudizio con l'accuaa di peculato e concorso in truffa aggravata il. La prima udienza del processo si terrà il 7 luglio davanti alla terza sezione del tribunale di Palermo. Secondo l'accusa il politico, ex viceministro dell'Economia, avrebbe usato l'auto blu in dotazione, in quanto ex Presidente dell'Ars, per fini personali. In particolare avrebbe usato, non per fini istituzionali, l’Audi della Regione, per una trentina di volte, tra marzo e novembre del 2023, anche per fare visite mediche, e persino per andare dal veterinario con il gatto. Avrebbe fatto salire sull'auto anche componenti della sua segreteria e familiari.
Il suo ex autista, Maurizio Messina, che ha scelto il rito abbreviato, è stato invece condannato dal giudice per l’udienza preliminare Marco Gaeta a un anno e mezzo di carcere per truffa, più sei mesi con l'accusa di avere sottratto la somma che gli era stata sequestrata durante le indagini.
Milano, 12 mar. (Adnkronos) - La Corte di Assise di Appello di Milano ha assolto, ribaltando la sentenza a sette anni inflitta in primo grado, Salvatore Pace per il concorso nell'omicidio di Umberto Mormile, l'educatore del carcere di Opera ammazzato l'11 aprile 1990. Il delitto fu rivendicato dalla Falange Armata, organizzazione terroristica sulla quale gravitavano mafiosi, 'ndranghetista e componenti dei servizi segreti deviati. Mormile, 34 anni, venne assassinato a Carpiano, nel Milanese, mentre andava al lavoro, quando due individui in sella a una moto esplosero contro di lui sei colpi di pistola. Secondo l'accusa, Pace, 69 anni, diventato collaboratore di giustizia, si sarebbe messo a disposizione dei mandanti dell'omicidio. "Attendo di leggere le motivazioni" è il commento dell'avvocato Fabio Rapici, legale di alcuni dei familiari della vittima.
Roma, 12 mar (Adnkronos) - La Difesa europea non salva il Pd. Anzi, lo spacca. A Strasburgo, al momento del voto sul piano ReArmEu, gli europarlamentari dem si sono divisi: 10 favorevoli e 11 astenuti. Non un banale testa a testa, che già sarebbe una notizia, ma una spaccatura politica. La prima, almeno così evidente, nella gestione di Elly Schlein. I riformisti dem, infatti, si sono tutti schierati per il sì. Mentre sino all'ultimo istante il capo delegazione Nicola Zingaretti ha lavorato per portare il gruppo sull'astensione in modo da disinnescare ogni tentazione a votare no. Ma la frattura non si è ricomposta.
Dopo il voto, la segretaria dem ha tenuto il punto, confermando le "molte critiche" avanzate su ReArmEu: "Quel piano va cambiato" e per farlo "continueremo a impegnarci ogni giorno", ha detto tra le altre cose. Ma l'onda del voto sulla Difesa Ue è arrivata fino al Nazareno, aprendo una discussione interna al partito in cui è riemersa anche la parola 'magica' Congresso. La foto di Strasburgo, del resto, è netta. Per il sì si sono schierati Stefano Bonaccini (il presidente del partito), Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Pina Picierno, Irene Tinagli, Raffaele Topo.
Tra gli astenuti Zingaretti, Lucia Annunziata, Brando Benifei, Annalisa Corrado, Camilla Laureti, Dario Nardella, Matteo Ricci, Sandro Ruotolo, Cecilia Strada, Marco Tarquinio, Alessandro Zan. Dalle tabelle dell'aula emerge tra l'altro che nel gruppo S&D gli unici ad astenersi sono stati gli italiani più un bulgaro, un irlandese e uno sloveno. Per non farsi mancare nulla, c'è stato anche il 'giallo' Annunziata, inizialmente conteggiata tra i sì e poi conteggiata come astenuta.
(Adnkronos) - Mentre a Strasburgo i più maliziosi hanno enfatizzato non solo la presenza di Nardella tra gli astenuti, ma soprattutto quella di Strada e Tarquinio: apertamente contrari al Piano Ue, alla vigilia erano dati certi tra i no. "C'è stato l'aiutino per non far vincere il sì", ha valutato un eurodeputato dem. Lo stesso Tarquinio, del resto, a Un giorno da pecora ha ammesso: "Se avessi votato no sarebbe mancato quel po' di più che ha consentito alla delegazione Pd di avere la maggioranza pro Elly Schlein".
"E' stata sconfitta la linea dell'astensione? E' stato sconfitto il no, perché si partiva dal no", è stata la valutazione di Lia Quartapelle. La deputata dem è stata tra quelli che hanno subito chiesto l'apertura di un confronto interno. "Dobbiamo dimostrarci all'altezza. Il Pd, un grande partito, deve argomentare dove vuole stare con una discussione che sino ad oggi non c'è stata", ha spiegato. Sulla stessa linea Piero Fassino e anche Marianna Madia: "Abbiamo la necessità di discutere e capire. Non possiamo fare tutto questo stando zitti o con un mezzo voto. Congresso o Direzione? Va bene tutto, basta che ci sia una discussione", ha detto la deputata.
Ai riformisti ha risposto Laura Boldrini: "Mi sarei aspettata che il gruppo del Pd al Parlamento europeo votasse compatto sull'astensione, che è la strada trovata dalla segretaria Schlein. Non è il momento di alimentare divisioni". Ma anche nell'area di maggioranza interna non è mancata la chiamata al confronto: "E' giusto che ci sia una discussione seria. E' una responsabilità che abbiamo tutti ed è interesse della segretaria, che io sostengo, che questa discussione si faccia nelle forme e con la rapidità necessarie", ha detto Gianni Cuperlo. Mentre è stato Andrea Orlando a chiedere un Congresso tematico: "Potrebbe essere utile anche per portare la discussione fuori dal solo gruppo dirigente" e per "chiarirsi le idee".
Milano, 12 mar. (Adnkronos) - "Morte naturale per infarto". Sono questi i primi risultati dell'autopsia per Carmine Gallo, l'ex super poliziotto protagonista della lotta contro la criminalità organizzata a Milano e ai domiciliari dallo scorso ottobre per l'inchiesta Equalize sui presunti dossier illeciti, morto domenica nella sua abitazione a Garbagnate Milanese. Si tratta dei primi riscontri dei medici legali, poi "arriveranno i tossicologici" chiesti in via precauzionale per escludere qualsiasi altra causa.
Roma, 12 mar (Adnkronos) - "Il libro di Follini rappresenta la foto di un mondo rovesciato rispetto al presente, un’America rovesciata, ieri prevaleva il senso della misura e il ragionamento, oggi prevale il populismo”. Lo ha detto il deputato del Pd Stefano Graziano presentando in conferenza stampa a Montecitorio il libro di Marco Follini 'Beneficio d’inventario'.
"Centrale è la parte che racconta della vita politica all’epoca del padre di Marco Follini, Vittorio, e dei leader politici del tempo da Francesco Cossiga, ad Aldo Moro, passando per Marco Pannella. Non tutti avevano la stessa idea politica ma erano tutti uniti nella forza di voler difendere la democrazia, una democrazia ottenuta con lotte, sangue, catastrofi e quindi seppur lontani politicamente, erano uniti dal dialogo. Una differenza abissale con l’Italia di oggi pericolosamente in mano ai sovranisti, dove tutto è concepito fuorché il dialogo. Forse questo abisso non è solo italiano ma sta prevalendo in tutto l’Occidente e la cosa è abbastanza preoccupante”, ha aggiunto Graziano.
Milano, 12 mar. (Adnkronos) - "La manovra repentina, improvvisa e del tutto imprevedibile, frutto certamente di una decisione di decimi di secondo attuata dal conducente del motoveicolo TMax non ha consentito al conducente del veicolo Giulietta di poter attuare alcuna manovra difensiva efficace". E' quanto sostiene la consulenza cinematica disposta dalla Procura di Milano e affidata all'ingegnere Domenico Romaniello. La relazione attribuisce la responsabilità dell'incidente a Fares Bouzidi, già indagato per omicidio stradale, l’amico di Ramy Elgaml che guidava lo scooter. Quando lo scooter da via Ripamonti svolta a sinistra verso via Quaranta, "con una deviazione improvvisa", per il consulente Fares imprime "una correzione di rotta verso destra", in direzione del marciapiede, e il carabiniere alla guida "non poteva certamente prevedere tale pericolosissima manovra e nulla ha potuto fare per evitare tale contatto, in ragione della impossibilità di poter attuare sia una correzione di rotta, sia una frenata efficace nello spazio a disposizione".
Non solo: il militare alla guida "non avrebbe altresì potuto neanche sterzare verso destra per la presenza del pedone (il testimone che riprende la scena con il cellulare) che per il conducente dell’autovettura è stato chiaramente percepito con la vista periferica" spiega l'ingegnere che ha realizzato la consulenza ricostruendo le condizioni di visibilità e velocità dell'inseguimento avvenuto la notte del 24 novembre scorso. Quella che mette in atto il carabiniere ora indagato per omicidio stradale (per lui si va verso la richiesta di archiviazione) è "una manovra difensiva obbligata": se lo scooter guidato da Fares avrebbe mantenuto la traiettoria 'naturale' chi guidava la Giulietta "non avrebbe sostanzialmente avuto problemi a mantenere il proprio veicolo iscritto nella curva da percorrere per la svolta a sinistra".
Quando Fares imposta la curva verso via Quaranta il T Max viaggia a una velocità di quasi 55 chilometri l'ora, quando il motociclo finisce la sua corsa contro il palo semaforico l'urto avviene a circa 33 chilometri orari. Per il consulente incaricato dalla procura la macchina che insegue, per evitare l'urto, "avrebbe dovuto disporre di uno spazio complessivo per l’arresto di circa 24 metri", mentre "il conducente aveva a disposizione circa 12 metri soltanto prima di giungere all’urto contro il palo semaforico".