“Il cattivo giornalismo è responsabile della morte di migliaia di persone nei conflitti in Iraq e Afghanistan”, sostiene il giornalista e regista John Pilger. Nel suo ultimo documentario The war you don’t see, attraverso le interviste ai reporter dei principali network tv e ai commissari dell’Onu, Pilger dimostra quanto l’informazione sia stata manipolata da chi ha promosso i conflitti, perché interessato allo sfruttamento delle risorse naturali e non all’esportazione della democrazia. Secondo Pilger, a Baghdad ci sarebbe stato il 90% di morti in meno, se i cronisti avessero investigato su menzogne come le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e non avessero accettato supini le dichiarazioni dei portavoce governativi. Ma qualcuno si salva: tra i pochi cronisti ancora ‘cani da guardia’ c’è il fondatore di Wikileaks Julian Assange, accusato di cyber-terrorismo e spionaggio per avere rivelato soprusi e violazioni perpetrati anche dalle democrazie occidentali. Cosa su cui i media mainstream, dalla Bbc al New York Times, non hanno indagato.
Pilger, inviato di guerra in Vietnam, Egitto e Biafra, in passato si è occupato delle atrocità dei Khmer Rossi in Cambogia e della violazione dei diritti umani a seguito delle sanzioni dell’Onu. Nella sua ultima inchiesta Pilger ricostruisce i meccanismi che hanno portato alla sudditanza dei 700 giornalisti embedded in Iraq i quali, per timore di perdere lavoro o di essere considerati antipatriottici, hanno accettato di osservare solo ciò che i governi, attraverso le truppe, consentivano di vedere. Il documentario mette in evidenza come i media non abbiano dato risalto alla morte di 500mila bambini sotto i 5 anni a causa dell’embargo imposto all’Iraq del 1998. E ancora: che civili e bambini sono diventati bersagli, che Obama, nonostante l’immagine pacifista, ha stanziato 7 miliardi di dollari per l’apparato militare, che il 90% dei giornalisti non embedded perde le proprie fonti ed è escluso dai circoli delle pubbliche relazioni governative.
“Le guerre moderne sono di tipo coloniale, invasioni per la conquista delle risorse”, spiega Pilger a ilfattoquotidiano.it. “E gli Stati Uniti hanno introdotto un elemento omicida nelle loro guerre. Anche una donna al mercato può essere sospettata di nascondere una bomba e così le forze armate hanno sviluppato armi destinate a colpire bersagli generici. Penso a mine antiuomo, cluster bombs e ‘daisy cutters’ contro i civili”.
Il fattore di cui parla Pilger ha determinato un vertiginoso aumento delle morti dei cittadini comuni che è esploso dal 10% nel primo conflitto mondiale per raggiungere il 70% in Vietnam fino al 90% in Iraq. Numeri da capogiro di cui anche il giornalismo è responsabile, perché ha fatto da cassa di risonanza alla propaganda dei governi spacciandola per verità. Ciò che intimorisce i governi è che abusi e falsità siano denunciati, come ha fatto Wikileaks. “Il sito di Assange”, prosegue Pilger che si è sempre schierato dalla sua parte, “rende il potere responsabile delle proprie azioni, cosa che normalmente dovrebbe fare il giornalismo. Wikileaks offre le informazioni che il servizio pubblico garantiva un tempo. Oggi i media sono diventati l’eco dell’establishment ed è per questo che Assange gode di tanta popolarità. E’ un bravo giornalista soggetto a pressioni fortissime e deve essere protetto”.
E dell’Italia che pensa Pilger? Probabilmente dei buoni ‘cani da guardia’ non avrebbero permesso che Berlusconi governasse tanto a lungo: “I media italiani mi hanno sempre sorpreso: o sono estremamente buoni, anche se in minoranza, o pessimi – osserva Pilger -. Penso in particolare alle reti tv e al controllo che lo Stato e Berlusconi sono stati in grado di esercitare”. E poi una domanda: “Perché i giornalisti non si sono rivoltati in massa, ad eccezione dei soliti impavidi?”, si chiede Pilger.