“L’educazione non deve essere solo trasmissione di sapere, ma anche di valori, deve stimolare lo spirito critico. E non solo: deve far sviluppare il senso di responsabilità per le azioni concrete”. Sembra una risposta a quanto detto sabato da Silvio Berlusconi sulla scuola pubblica quella data ai giovani della Biennale della Democrazia da Stéphane Hessel, l’autore di Indignatevi (Add editore, 2011), un “libricino” che in Francia ha venduto 1.900.000 copie (“Ah, non ancora due milioni, c’est malheureux”, dice con ironia). Tedesco naturalizzato francese, ex partigiano, membro della commissione che creò la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ed ex diplomatico, Hessel ha 93 anni e una grande vivacità mentale. Domenica mattina in tanti sono accorsi per assistere al dibattito sull’obbedienza e le disobbedienza dei cittadini con il magistrato milanese Armando Spataro. Alle ragazze e ai ragazzi, a cui si rivolge il suo messaggio di indignazione e attivismo sociale, consiglia di “entrare a far parte di gruppi che si impegnano su una questione concreta, su un problema specifico da sbloccare”. Insomma, “engagez-vous”, come il nuovo libro uscito da poco in Francia. Ilfattoquotidiano.it ha incontrato Hessel prima del suo intervento.
In Italia motivi per indignarsi ce ne sono ma solo una parte minoritaria della società lo fa
Le resistenze sono sempre minoritarie quando sono all’inizio. In Francia, la Resistenza ha dovuto aspettare il 1942 per diventare più importante, ma alla fine è diventata una forza. Nei regimi democratici bisogna provare a migliorare il sistema sbarazzandosi delle lobby, che secondo me sono il vero problema. Bisogna obbligarli a condividere i loro benefici col popolo.
In pratica la situazione deve esasperarsi ulteriormente?
In Nord Africa il problema era relativamente semplice. C’erano più dittatori, Mubarak, Ben Alì ed era normale che i giovani manifestassero. Ma quello che stupisce è che sono riusciti a sbarazzarsi dei dittatori. All’improvviso ci siamo chiesti se anche noi fossimo capaci a sbarazzarsi dei nostri dirigenti, ma non è così facile, perché non sono dei dittatori. Possiamo non amarli, batterci contro loro, ma non è come se fossero Hitler o Mussolini, e quindi bisogna essere più circospetti. E qui la non-violenza diventa importante.
Nel suo libro ricorda che dopo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, a cui lei ha contribuito, molti Stati colonizzati impugnarono il documento per la loro lotta di liberazione. Indignatevi è uscito nei mesi delle rivolte. Si sente un ideologo delle ribellioni?
(sorride) Io e Sylvie Crossman (l’editrice che ha “scoperto” Hessel e pubblicato il libro per le éditions Indigènes, ndr) abbiamo avuto la tentazione di dire “Vedete, abbiamo avuto ragione a pubblicare questo libro perché subito dopo sono cominciate le rivoluzioni”, ma non esageriamo. Il mio libricino è una cosetta. Ma quello che è interessante è la coincidenza: c’è un sentimento di pericolo che si espande ovunque, in Africa, Medio Oriente e anche in Europa, e dunque il libro si appella ai cittadini dicendo loro che possono indignarsi e agire, perché come cittadini hanno delle responsabilità. Ogni cittadino dev’essere cosciente della sua capacità d’intervenire e bisogna che agisca con coraggio e determinazione.
In quanto non-violento, cosa pensa dell’intervento militare francese in Libia voluto da Nicolas Sarkozy?
Non amo Sarkozy, ma per quanto riguarda l’intervento militare la vedo così: la Libia ha subìto il contagio molto serio di Egitto e Tunisia. Le persone si sono dette: “Siamo sotto un dittatore insopportabile. Gli altri sono partiti e Gheddafi deve partire”. Ma non avevano gli stessi mezzi per farlo. Bisognava aiutarli affinché non fossero massacrati.
Ma il problema è la violenza, a cui lei si oppone.
C’è una contraddizione, sì. Possiamo risolverla aspettando che anche a Tripoli sorga la rivolta e possiamo contribuire rendendo più difficile la situazione di Gheddafi, distruggendo le sue basi e facendo un’azione diplomatica in cui siano coinvolti gli Stati arabi e africani, evitando di colpire i civili. È molto difficile.
Le espulsioni degli extracomunitari sono uno dei motivi per indignarsi di cui lei tratta. Cosa pensa del comportamento di Francia e Italia sulla questione degli immigrati?
Dovrebbero accordarsi per accogliere quelli che vengono dall’Africa del Nord, insieme e con intelligenza. La questione si risolve anche coinvolgendo i paesi d’origine, cosa che non è stata fatta a sufficienza.
Lei scrive anche che non apprezza gli indifferenti. Si è ispirato ad Antonio Gramsci?
Sono gramsciano e considero che la sua maniera di porre il problema dell’impegno mi si addica. Il pensiero italiano ha contribuito molto. Anche Giuseppe Mazzini diceva che bisogna impegnarsi e uscire dall’indifferenza.
Pierluigi Battista del Corriere della Sera definisce il vostro libro pieno di concetti banali, in cui il solo scopo è l’indignazione. Come risponde?
Accetto la critica, ma se leggiamo bene il libro non c’è solo l’indignazione, ma anche l’elenco dei problemi a cui bisogna trovare delle risposte. È l’inizio dell’affermazione delle lotte ecologiste, per la giustizia.
Ha ricevuto anche delle critiche sulla questione palestinese?
Il governo israeliano mi ha criticato perché m’impegno politicamente per il riconoscimento dello Stato palestinese. Mi hanno chiesto perché non lo faccio anche per il Congo, la Cecenia o altri, ma io ci sono stato più volte (nel 2007 e mi sento responsabile. Altri sono stati in Cecenia, parleranno loro della Cecenia.
Una curiosità. In Francia vi chiamano “papy” (nonno, ndr)?
No.
Lo sa che “papi” è il nome con cui le giovani ragazze di Silvio Berlusconi lo chiamano. Non la indigna questa cosa?
Sinceramente sì. Trovo che sia cattivo e scandaloso. Abbiamo bisogno di avere un po’ di ammirazione per le persone che ci dirigono, ma non è possibile né in Francia, né in Italia.
In Italia diciamo che c’è una gerontocrazia. Però forse i giovani hanno ancora bisogno di persone come voi?
Sì, ma non troppe (ride). Abbiamo soprattutto bisogno di giovani impegnati e coraggiosi, ma gli anziani che ci sono possono essere degli utili testimoni. I giovani possano ricevere delle buone informazioni su quello che i loro nonni hanno fatto. Ce n’è bisogno, sì, ma non troppi.