Un passo indietro per rinfrescare la memoria, parte prima. Torino, 15 gennaio 2011. Con il 54% dei Sì, i lavoratori di Fiat Mirafiori promuovono l’accordo separato del 23 dicembre che riconosce il cambio di rotta richiesto dall’Ad Sergio Marchionne. Un successo sorprendentemente risicato su cui pesa il voto “bulgaro” dei colletti bianchi. Tra le circa 4.500 tute blu, i Sì si sono imposti per appena 9 voti. L’accordo sindacale appoggiato da tutte le sigle con l’eccezione della Fiom entra dunque in vigore con tutto il suo corollario di sacrifici scaricati sulle spalle degli operai. E il plauso è pressoché unanime. Se vincesse il No «le imprese e gli imprenditori avrebbero buone motivazioni per spostarsi in altri Paesi» aveva dichiarato solo pochi giorni prima il premier Silvio Berlusconi agitando lo spauracchio della temuta fuga del Lingotto dall’Italia. Un timore, o per meglio dire un ricatto, alla base di quelle ragioni del Sì puntualmente ribadite al termine della consultazione.
Un passo indietro per rinfrescare la memoria, parte seconda. Una breve rassegna dei commenti principali nel day after referendario. Raffaele Bonanni, numero uno della Cisl: «E’ un risultato prodigioso, è la prima volta che si vince un referendum a Mirafiori». Paolo Romani, ministro dello Sviluppo economico: «La vittoria del sì è uno snodo fondamentale per la costruzione del futuro di Mirafiori. Adesso Fiat ha tutte le carte in regola per tornare a essere una grande azienda multinazionale italiana». Pierluigi Bersani, leader del Pd, più cauto: «Adesso quel risultato va rispettato, e va rispettato anche per quel tanto di disagio che rappresenta. Quindi ora Fiat mantenga gli impegni e si rivolga a tutti i lavoratori». Francesco Rutelli, Alleanza per l’Italia: «un risultato che è segno di grande responsabilità da parte dei lavoratori di Mirafiori». Pier Ferdinando Casini, segretario Udc «nel sì di Mirafiori c’è una grande saggezza». Luigi Angeletti, segretario generale Uil: «Alla fine hanno vinto le ragioni del lavoro». Infine Bruno Vitali, segretario nazionale della Fim Cisl: «Nasce lo stabilimento del futuro. Ora festeggia Torino, sbaglia chi pensa che Marchionne va a festeggiare a Detroit».
Sterling Heights, Michigan, 24 maggio 2011. Per Sergio Marchionne arriva il giorno della gloria o, per lo meno, quello della festa annunciata. Solo che il party non è stato preparato a Torino bensì proprio nel principale sobborgo di Detroit, la “motown” per eccellenza, la città della Chrysler. L’azienda americana completa il rimborso del maxi prestito congiunto contratto con i governi di Usa e Canada, un fardello da oltre 7 miliardi di dollari la cui restituzione consente alla Fiat di completare un’ulteriore tappa della propria scalata. La partecipazione del Lingotto in Chrysler sale al 46%, con un nuovo avvicinamento alla quota obiettivo del 51%, preludio alla definitiva fusione. Nonché, si intuisce, al definitivo abbandono di Torino, centro direzionale ormai inadeguato a un’impresa globale quale la nuova creatura dovrebbe essere.
«Noi stiamo facendo il possibile per accelerare questo ritmo ed arrivare, nel più breve tempo possibile, alla nascita di un solo gruppo in grado di garantire maggiore stabilità e forza alla relazione nell’interesse di entrambi i partner» ha spiegato Marchionne. E non sono parole casuali. Il gruppo si prepara alla fusione, una questione “non immediata” ma anche un traguardo scontato. Così come scontato, ed è questo l’aspetto principale della questione, è il trasferimento della sede decisionale negli Stati Uniti. Troppo importante il mercato americano per non assumere il ruolo di core business del gruppo, troppo depressa l’economia italiana per garantire un incremento delle vendite capace di rilanciare la coppia Fiat-Chrysler. Il mercato italiano, scriveva a novembre l’Economist, è troppo “piccolo e poco competitivo per garantire una sopravvivenza a lungo termine”. Come a dire che ad esso dovrà essere riservato un ruolo marginale. E’ vero, Marchionne ha confermato l’impegno da 20 miliardi per Fabbrica Italia ma il futuro, a rigor di logica, sembra lontano dal capoluogo.
Il rilancio di Chrysler, compagnia tecnicamente fallita nel 2009, è una priorità oltre che l’obiettivo più ragionevolmente conseguibile a fronte delle potenzialità del mercato Usa. L’azienda ha sì restituito il prestito ma non lo ha fatto mettendo mano agli utili bensì emettendo nuove obbligazioni. In pratica Detroit deve ancora fare fronte un debito da 7,5 miliardi, con la differenza che questa volta i tassi sono decisamente più bassi (gli interessi caricati da Washington e Ottawa oscillavano tra il 14% e il 20%) con un risparmio previsto di 300 milioni di dollari all’anno. A febbraio Marchionne aveva rotto gli indugi ipotizzando un trasferimento del quartier generale proprio a Detroit. L’ipotesi intermedia di un doppio centro direzionale diviso tra il Michigan e il capoluogo piemontese resta un’idea estremamente labile e decisamente poco convincente. Marchionne, guarda caso, non ne parla e agli esperti di organizzazione industriale l’ipotesi sembra sostanzialmente irrealizzabile. “Come fai a gestire 23 persone che riferiscono a te a Detroit e altre 25 a Torino?” si chiese retoricamente il presidente di Chrysler Robert Kidder in un’intervista al Wall Street Journal dello scorso febbraio. “Non scherziamo, è chiaro che se la sede è in America e un domani arriva un governo democratico di Cuba che offre condizioni vantaggiose, Marchionne non ci penserebbe due volte a spostare la produzione da Torino all’Avana – spiegò al tempo stesso un ex dirigente Fiat al Fatto Quotidiano. L’Italia sarà alla pari della Polonia o del Brasile: una colonia”.
Probabile. Di certo, però, non sarà la colonia più promettente. Per lo meno dal punto di vista degli azionisti. Le cifre le aveva ribadite l’Economist nel recente passato: “In Italia – scriveva a novembre il settimanale britannico – 22mila lavoratori distribuiti su cinque fabbriche producono ogni anno 650mila automobili. Nella principale installazione Fiat in Brasile, appena 9.400 dipendenti ne realizzano 750mila. L’impianto polacco fa ancora meglio: 6.100 lavoratori per 600mila vetture”. Le conseguenze sono ovvie. “E’ facile immaginare che la Fiat possa lasciare appassire i propri impianti (in Italia – ndr) iniettando nuovi investimenti nei Paesi caratterizzati da una crescita delle vendite e da una produttività più alta”. Il piano di Fabbrica Italia resta, d’accordo, ma ciò non toglie che nel medio lungo periodo la Penisola rischi di diventare sempre più marginale. Siamo sicuri, dunque, che la scelta “obbligata” del Sì al referendum fosse davvero giustificata? Insomma, ne valeva davvero la pena?
La risposta negativa, a suo tempo, la diede di fatto solo la Fiom di Maurizio Landini, lo stesso Landini con il quale Marchionne si augurerebbe di avere “lo stesso rapporto” che ha “con Bob King”, leader della United Auto Workers (UAW), il principale sindacato Usa del settore. Quello che Marchionne non dice, tuttavia, è che la Uaw è anche il maggiore azionista di Chrysler con il 45% dei titoli. Quando la Fiat raggiungerà la maggioranza, l’organizzazione di King continuerà a controllare il 41% dell’azienda. In sintesi, la Fiat dovrà pensare ai suoi azionisti, la Uaw anche. Solo che in quest’ultimo caso gli stakeholders saranno, in pratica, i lavoratori stessi. La domanda, quindi, è ovvia: in caso di “conflitto” tra Mirafiori e Sterling Heights quali operai avranno le maggiori probabilità di essere tutelati? Chissà se la coppia Angeletti-Bonanni avrà voglia di azzardare una risposta.