Alla fine il marchio della sconfitta lo mette Berlusconi in persona, parlando dalla Romania: “Abbiamo perso, è evidente”. La giustificazione è pronta: “Guardando caso per caso, la sconfitta non ha niente a che vedere con il governo”. Il premier assicura che l’esecutivo andrà avanti, contro tutto e contro tutti, “con l’accordo di Bossi”. E non risparmia la battutaccia nel giorno della sconfitta peggiore: “Ora i milanesi devono pregare il buon Dio che non gli succeda qualcosa di negativo”. Quanto a Napoli, dice il Cavaliere, gli elettori “si pentiranno tutti moltissimo”.
Il premier si spezza ma non si piega, insomma, mentre tutto attorno lo scenario racconta un cappotto completo su tutta la linea. Persa Milano per mano del “comunista” Pisapia. Tracollo a Napoli, dove De Magistris prende percentuali bulgare che neanche il Bassolino dei tempi d’oro. E poi Cagliari, che finisce nelle mani dell’altro comunista protagonista di queste amministrative, Massimo Zedda (60%). Via a cadere le città già perse al primo turno: Torino, Bologna. E infine Trieste, che torna nelle mani del centrosinistra. Basterebbero queste sei città per disegnare quel famigerato vento di cambiamento che trascina il centrodestra fuori dalle città che contano. Ma c’è di più, molto di più, andando a guardare nei centri piccoli e medi.
Il centrodestra tiene solo a Varese, dove il leghista Attilio Fontana porta a casa una vittoria sofferta. Il resto è ancora tinto dai colori del centrosinistra: Gallarate, dove la Lega sostiene di fatto il Pd, Novara, Rimini, Pordenone, Grosseto e Crotone. Mentre al centrodestra vanno Cosenza, Iglesias e Rovigo. Per quanto riguarda le province, vanno al centrosinistra quelle di Mantova, Pavia e Macerata. Mentre il centrodestra si prende Vercelli e Reggio Calabria.
Spremuti i dati elettorali, il succo politico è evidente. E Berlusconi lo sa bene. Tracollo, ad essere pietosi, disarmo totale, per dirla tutta. Il primo a farne le spese (unico nel suo genere) è il coordinatore del Pdl Sandro Bondi, che immediatamente rassegna le sue dimissioni. Per il resto è un diluvio di necessità di “riflettere”. Da Quagliariello ad Alemanno, da Frattini alla stessa Moratti, parte in realtà la resa dei conti dentro il partito. Il ministro degli esteri chiede di sperimentare il modello delle primarie nel partito. Ma a parte lui, con i big che tacciono sono i pesci più piccoli che sondano il terreno per capire chi e cosa sarà investito dal terremoto politico. Sisma che potrebbe scatenarsi già oggi, quando il premier di ritorno da Bucarest riunirà l’ufficio di presidenza del Pdl. I nodi hanno nomi e cognomi: Mantovani, che da coordinatore lombardo non ha brillato, Scajola, deciso a dare battaglia. E poi Beccalossi, che al Tg4 ha criticato il premier sulle case abusive. E poi i sempre meno responsabili, ancora in attesa delle promesse poltrone. La lib-dem Melchiorre che lascia il posto da sottosegretario. Ogni nome, negli incubi del premier diventa una possibile corrente da disinnescare.
Il premier glissa sulla resa dei conti e preferisce parlare di “maggiore radicamento nel territorio”: “Adesso ci vediamo e faremo quello che serve per radicare molto di più il partito sul territorio, come eravamo già intenzionati a fare”, dice ai giornalisti da Bucarest. Ma l’ipotesi, Berlusconi non lo nega, è quella di fare piazza pulita degli attuali coordinatori per fare posto al ministro della Giustizia Alfano: “Si tratta di un processo che era già avviato, un lavoro sul Popolo delle Libertà di cui mi occupo direttamente, perché vogliamo rilanciarlo alla grande”.
Non va meglio in casa della Lega. Matteo Salvini, a Milano, marca subito la distinzione: “Non siamo qui a fare i processi, ma è chiaro che il Pdl ha perso voti, e la Lega ne ha guadagnati”. Il ministro Calderoli, per parte sua, si mostra tranquillo, fedele nel solco tracciato dal premier: “Il governo andrà avanti fino alla fine della legislatura per fare le riforme. Si vince e si perde insieme”. Ma c’è da giurare che la base non sarà così netta nel distribuire le colpe, né così blanda nelle soluzioni.
Chi se la ride, nonostante i magri risultati elettorali, è il presidente della Camera. Gianfranco Fini affida ad una nota la sua vendetta: “Avevo avvertito Berlusconi, scrive Fini, lui mi ha ripagato buttandomi fuori”. Il leader di Fli si spinge oltre: “Il governo può anche non cadere, ma il berlusconismo è finito”. E aggiunge, preoccupato per la manovra economica alle porte: “Speriamo di non essere alla vigilia di giorni più complicati”.
Ridono, e di gusto, anche nel centrosinistra, e per oggi non potrebbe essere altrimenti. Pisapia e De Magistris, certo, festeggiano. Così come fanno festa Bersani – “Abbiamo smacchiato il giaguaro”, commenta sarcastico – Bindi, Veltroni, D’Alema, i big del partito democratico di solito impegnati a distinguersi per una volta sono tutti d’accordo. Da padre storico dei democratici sorride anche Romano Prodi, che si presenta in piazza del Pantheon a Roma per festeggiare. L’avvertimento dell’unico uomo che abbia battuto Berlusconi (per due volte) è tanto chiaro quanto perentorio: “Non più di cinque minuti per festeggiare – ammonisce – poi subito mettersi al lavoro”. C’è da augurarsi che i suoi seguano il consiglio.