L’anniversario dell’assalto dei commandos israeliani contro la Freedom Flotilla diretta a Gaza (9 attivisti turchi uccisi) è stato salutato a Istanbul con un raduno a cui hanno preso parte migliaia di persone. L’occasione è servita anche per rendere pubblici alcuni dettagli sulla nuova Freedom Flotilla che si prepara a salpare nella seconda metà di giugno, più probabilmente verso la fine del mese.
La nuova flotta, diretta ancora una volta a Gaza, dovrebbe essere composta quest’anno da una quindicina di navi, compresa la Mavi Marmara, “l’ammiraglia” della flotta del 2010, abbordata dai commandos israeliani. Ufficialmente battezzato “Freedom Flotilla 2 – Stay Human”, per ricordare Vittorio Arrigoni, il convoglio comprenderà anche una nave “italiana”, intitolata al giornalista del quotidiano Il Manifesto Stefano Chiarini, morto improvvisamente nel 2007 dopo essere stato, tra mille altre cose, anche uno dei promotori della costruzione di un monumento alle vittime del massacro di Sabra e Chatila, a Beirut, nel 1982.
Dietro le quinte, il governo israeliano sta cercando di convincere la Turchia a bloccare la partenza della Flotilla. La risposta alle pressioni israeliane è arrivata lunedì 30 maggio, dal ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu. Il responsabile della diplomazia di Ankara ha replicato al Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-Moon, che in una nota diffusa venerdì scorso, aveva chiesto a vari governi di “scoraggiare” gli attivisti impegnati nell’organizzazione della Flotilla. “Siamo un governo democratico – ha detto Davutoglu in una intervista alla Reuters – E nessun paese democratico può pensare di avere pieno controllo sulle organizzazioni non governative. Avvisi rispetto alla nuova flotilla dovrebbero essere diretti verso Israele e non si può dimenticare che lo scorso anno nove persone sono morte. Il nostro messaggio per tutte le parti coinvolte è che gli eventi dell’anno scorso non si devono ripetere”.
Con l’avvicinarsi del momento della partenza, il clima attorno alla Flotilla si sta già surriscaldando. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, la marina militare israeliana sta conducendo esercitazioni sull’abbordaggio e ha mobilitato una parte dei suoi riservisti, prevedendo che rispetto all’anno scorso il numero di navi sarà doppio e così anche quello degli attivisti a bordo, addirittura 1500. L’ex capo di stato maggiore israeliano Gabi Ashkenazi ha riferito davanti alla commissione Turkel (quella incaricata dal governo israeliano dell’indagine sui fatti dello scorso anno) che si potrebbe arrivare all’uso di cecchini per evitare il corpo a corpo di un abbordaggio in alto mare. Da quel poco che si apprende sulla preparazione della marina israeliana, però, i militari sembrano più orientati a usare tecniche da ordine pubblico – decisamente poco familiari per i marinai – per evitare che ci siano vittime. Il primo ministro Benyamin Netanyahu ha ribadito che il suo governo preferirebbe arrivare a una soluzione «diplomatica» che impedisca la partenza del convoglio umanitario, ma che in ogni caso si riserva di usare qualsiasi mezzo per impedirne l’attracco a Gaza. Israele mantiene il blocco della Striscia dal 2006, quando Hamas vinse le elezioni palestinesi, e ha lo reso più stringente un anno dopo, quando il movimento islamista palestinese assunse il controllo dei 40 chilometri quadrati di territorio di questo antico crocevia tra l’Egitto e il cuore del Medio Oriente.
Memore del micidiale effetto boomerang e del danno di immagine internazionale causato dall’assalto dello scorso anno, il governo israeliano vuole evitare di ripetere lo stesso copione. Soprattutto per il delicatissimo momento politico internazionale in cui la Flotilla sta per inserirsi. Secondo fonti diplomatiche citate dalla stampa israeliana, infatti, l’Autorità Nazionale Palestinese si prepara a presentare la propria richiesta di ammissione e riconoscimento all’Onu al massimo entro metà luglio. I tempi tecnici dettano l’agenda politica: l’Assemblea Generale dell’Onu che dovrebbe deliberare il riconoscimento della Palestina è fissata a metà settembre. La questione deve però essere discussa prima nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che a luglio sarà presieduto dalla Germania, come membro a rotazione. Il Consiglio di Sicurezza ha 35 giorni di tempo per presentare le sue valutazioni all’Assemblea e approvare o meno la richiesta di ammissione, che l’Anp si prepara a fare al Segretario Generale Ban Ki-Moon. Dopo il discorso di Barack Obama, però, è molto improbabile, per non dire impossibile, che il Consiglio di Sicurezza possa approvare la richiesta palestinese, e gli USA si preparano a usare il potere di veto, con il risultato di rischiare di trovarsi a essere l’unico paese contrario all’ammissione della Palestina. Anche con un risultato del genere, però, l’Assemblea Generale può votare a favore del riconoscimento, pur senza poter ammettere la Palestina come membro effettivo dell’Onu. Per l’Anp sarebbe comunque una sonora vittoria politica, tanto che il governo Netanyahu ha già detto di «non poter fare nulla per impedire il voto dell’Onu».
Un’eventuale escalation nelle acque di Gaza rischia di spostare a favore dei palestinesi anche quei paesi che ancora sono incerti sul da farsi, come molti stati europei, per esempio, o che sentono il fiato sul collo delle rispettive opinioni pubbliche, specialmente dopo il ritrovato accordo tra i partiti palestinesi e dopo il pressing diplomatico della Casa Bianca per far ripartire un processo di pace reso più urgente dalla tempesta sociale e politica che sconvolge il mondo arabo.
C’è tuttavia una carta che il governo israeliano può ancora giocare nella sua guerra d’immagine rispetto alla Flotilla. Il governo Netanyahu continua a impedire ai pescatori di Gaza di allontanarsi dalla costa, continua a bloccare l’afflusso di moltissime materie dal valico di Eretz e a impedire che i cittadini di Gaza possano andare in Cisgiordania e viceversa. Continua anche – ma con minore intensità – il botta e risposta tra razzi sparati dalla Striscia e incursioni israeliane. Così come continua lo stallo attorno alla sorte del caporale Gilad Shalit, detenuto presumibilmente nella Striscia.
L’apertura del valico di Rafah, però, decisa pochi giorni fa dal nuovo governo egiziano, se ancora è troppo fresca e limitata per avere un impatto sulla durissima vita quotidiana del milione e mezzo di palestinesi ammassati nella Striscia di Gaza, rende tuttavia meno “precisa” l’immagine di Gaza come “prigione a cielo aperto”, senza via di uscita o di ingresso se non quelle sorvegliate dai soldati di Tsahal. In questa situazione, l’azione umanitaria del convoglio pacifista internazionale (molto ampia la rete di organizzazioni che aderiscono alla Flotilla, comprese alcune organizzazioni pacifiste ebraiche europee) potrebbe più facilmente essere presentata come «anti-israeliana» più che “filo-palestinese”. Una mossa del genere però richiederebbe un sangue freddo e una capacità di lettura della situazione che il governo Netanyahu, colto di sorpresa da ogni recente evento in Medio Oriente, ha ampiamente dimostrato di non possedere.
di Joseph Zarlingo