Non ci pensa nemmeno a tornare indietro, Matteo Renzi. Non gli importa un fico secco se questo vorrà dire uno strappo definitivo tra lui e gli altri rottamatori del Pd con cui guidò la rivolta della stazione Leopolda, a Firenze, con settemila persone che giuravano di non voler più sentir parlare di Bersani, D’Alema e Veltroni. Non gli importa nemmeno di perdere popolarità tra i suoi elettori e di gettare lo scompiglio nel suo partito. E oggi, nonostante le critiche, nel migliore dei casi, le accuse, vedi Grillo, dice no all’acqua pubblica. Se tre giorni fa il voto di Renzi al quesito referendario che riguarda la determinazione della tariffa dell’acqua era un forse, oggi è diventato un no. Con tutto quello che comporta.
“I miei sono tre sì e un no”, dice al fattoquotidiano.it. “Vado a votare, ovvio, ma decido io. L’obiettivo non è raggiungere il quorum? Ci sono. Ma siccome quella che si vuole abrogare è una legge del 2006, governo Prodi, e firmata dal ministro Di Pietro, dovevamo riflettere allora. Come dissi anche io che non ero da un’altra parte, ma nel Pd. Oggi quella legge mi comporterebbe andare a chiedere qualcosa come 72 milioni di euro ai fiorentini, e non posso permettermelo”. Ma sarebbero i gestori privati a chiederlo, in realtà. “In teoria, poi nella pratica sarebbe come dico io, perché la faccia è la mia. Io ho iniziato un lavoro che non posso mandare all’aria e riguarda una cosa molto seria come la depurazione dell’acqua dove a Firenze come nel resto d’Italia siamo indietro di qualche decina d’anni rispetto all’Occidente. Se il Pd cambia idea a seconda del vento che tira non è un problema mio. Io continuo sulla strada della coerenza”.
Coerenza per Renzi, il discolaccio della sinistra, vuol dire continuare a permettere al gestore del servizio idrico di ottenere profitti garantiti sulla tariffa, caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza alcun collegamento a logiche di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio stesso.
Un no che non solo lo espone di fronte al partito, per l’ennesima vota, ma lo mette in una situazione di distanza dai suoi (o ex?) rottamatori, quelli che erano con lui due anni fa. “Non è vero”, dice ancora Renzi, “la gente che era alla Leopolda è ancora con me, acqua o non acqua. Io continuo a dire che da sindaco di Firenze non posso permettermi di andare a chiedere ulteriori soldi ai fiorentini”.
In sostanza, meglio continuare a prenderli da dove arrivano i quattrini. Dai fiorentini, appunto. Ma la direzione contraria (più che ostinata) è un marchio fondamentale per l’uomo Renzi. A volte sembra andarsele a cercare, e non si capisce se il suo sia un flirtare con gli elettori moderati, o comunque non del centrosinistra, oppure sia provocazione. “Niente di tutto questo. Io sostengo quello che il Pd sosteneva nel 2006 e Bersani fino a sei mesi fa, sono gli altri che cambiano idea”.
Vabbè, resta il rapporto coi rottamatori. “Rottamatori siamo tutti e nessuno”, dice ancora. “Io non voglio creare una corrente, ma un movimento di pensiero”. Alla Leopolda, però, su quel palco erano in due. Lui e Filippo Civati. “Con Pippo abbiamo avuto divergenze peggiori”.
Civati, raggiunto al telefono, non è che sia così d’accordo. “Renzi fa il Renzi, noi facciamo un altro tipo di lavoro. Io esco proprio adesso da una massacrante direzione del partito, non faccio il sindaco di una grande città. Se voglio cambiare qualcosa nel mio partito devo andare a parlare con Bersani, non ad Arcore da Berlusconi”.
Un liscio e busso, come direbbero in uno dei tanti circoli della Toscana dove si gioca a tressette, briscola e scopa, che non può far bene a Renzi che in questi giorni di missili ne ha ricevuti da tutte le parti, a partire da quell’Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, con il quale il sindaco non può permettersi di non dialogare. “Rossi”, dice ancora Civati, “ha fatto una riflessione attenta e in parte critica. Onesta. Con Renzi oggi come oggi abbiamo ben poco da condividere. Arcore, Fiat e ora i referendum: la situazione, ma lo dico senza nessuna acrimonia, è diventata ingestibile. Sono contento di una cosa, Matteo o non Matteo: io credo che il Pd, su molte delle cose dette alla Leopolda, ci sia venuto dietro. La strada che volevamo era questa”.
Certo è che senza Renzi i “rottamattori”, o cosiddetti tali, hanno perso la visibilità che avevano. Lo strappo tra Civati e Renzi è iniziato mesi fa, non è negabile e nessuno lo nega. E da quel tempo in poi i giovani che volevano rovesciare il partitone sono quasi scomparsi dalle pagine dei giornali. “Abbiamo lavorato in un altro modo”, dicono.
Probabile che Bersani non sia andato dietro ai referendum per accontentare Civati, ma perché il sì è quello che la sua gente, la stessa dei tavoli di tressette, voleva senza se e senza ma. Il segretario si è rivelato – lo dice lo stesso Civati – molto più movimentista di quanto non lo fosse qualche mese addietro. Ed è pronto a chiedere senza indugio quattro sì, a tutti.
“Anche questo dice Bersani?”, si chiede sorridendo Renzi. “Bene, vuol dire che dovrà mettersi d’accordo con Enrico Letta, che non mi pare sulla sua stessa posizione”.