Ed è a suo modo bellissimo, lo psicodrammone collettivo, in scena ieri nella sala del Garante a Piazza Montecitorio. Tutta una giornata a discutere di come combattere e sostituire i detestati “conduttori rossi”, e poi tutti a spellarsi le mani per l’ex direttore generale della Rai che elogia la Lei per aver mandato via Santoro, ma afferma di non averlo fatto lui. È la doppiezza berlusconiana, bellezza. Quando esce, il mitico Agostino, gli chiedo: “Ma eri serio?”. E lui: “Se vuoi ti do una intervista e ti spiego tutto. Ma la realtà è semplice: Luttazzi non lo calcolo nemmeno, alla Rai di fatto non c’era. A Biagi avevo offerto 30 puntate! Aveva accettato, ma poi ha preferito andar via, come sa bene anche Mazzetti. Di Santoro ero uno dei due soli grandi amici che cita nel suo libro: non ha accettato la nuova collocazione. Se non fosse stato così – dice Saccà – avrei dovuto pagare un miliardo e 800 mila euro davanti alla Corte dei conti”. Gli chiedi: “Sei stato assolto?”. E lui: “No… mi hanno condannato a pagarne 100 mila euro. Però la sentenza è sospesa per l’appello”.
Ma tant’è. Dentro il ragionamento dell’ex direttore generale c’è lo stesso filo di paradosso che è attraversa tutto il dibattito. Cacciare Santoro e lamentarne lo strapotere, fare le leggi e lamentare la dittatura altrui (Maurizio Gasparri, estensore dell’omonima legge), essere nella direzione del Tg1 (“Genny” Sangiuliano, braccio destro di Augusto Minzolini) e denunciare “la non democratica repubblica dei conduttori di sinistra”, essere ministri e lamentare l’impotenza del governo (memorabile aforisma del sempre brillante Gianfranco Rotondi: “Solo quando perdiamo abbiamo le idee chiare su cosa dovremmo fare quando vinciamo!”). Essere sindaco di Roma con una pessima immagine, e prendersela con i giornali come Gianni Alemanno (“Ci sono ancora molti scompensi. C’è un trust culturale che l’informazione continua a condizionarla”). Essere parlamentare del Pdl e direttore de Il Secolo d’Italia come Marcello De Angelis e lamentare il sabotaggio dei giornalisti di sinistra (“Ci sono piccoli soviet nelle redazioni che impediscono il cambiamento”). Essere il ministro della Gioventù e lanciare l’allarme sul web come Giorgia Meloni: “L’egemonia rischia di trasferirsi su Internet: la gente oggi si forma la sua opinione su Spinoza.it piuttosto che con i tiggì” (facce lunghe in platea, e dubbi drammatici in palea: “Spinoza chi?”).
In sala bella gente: Attilio Romita “volto del Tg1”, Susanna “farfallina” Petruni, una deputata come Debora Bergamini (ex responsabile marketing Rai) o un gladiatore come Piero Vigorelli (“Perché il centrodestra non ha abolito la par condicio?”). Sul palco, oltre a Sangiuliano e Ruffini una firma che viene dal Borghese come Marco Ferrazzoli. Già qui, a ben vedere, un punto di ambiguità: si sommano fisicamente due anime e due antropologie molto diverse: i giornalisti di para-Stato ex pentapartitici Rai; e quelli usciti dal “cattiverio” postmissino. Stesso tono vittimistico, ma storie e motivazioni opposte: l’eterno governo e l’eterna opposizione. Memorabile l’incoraggiamento di Sangiuliano alla platea di aspiranti – si fa per dire – carbonari: “Vedo oggi, qui, tanti colleghi della Rai. Grazie! Grazie per aver avuto il coraggio di venire qui sapendo che domani la lista dei vostri nomi sarà spiattellata su Il Fatto!”. Diverse teste (a cui non daremo il privilegio della citazione su questo giornale) si girano preoccupate in cerca del cronista. Gasparri riscalda le masse: “Se un direttore di sinistra scrive un editoriale tutti i giorni non succede nulla. Se lo fa uno di destra, come Minzolini, è scandalo!”. Ferrazzoli ha toni epici: “Se un merito ci può essere riconosciuto è essere rimasti vivi! San-giuliano comizieggia con efficacia: “L’attuale sindaco di Napoli non è il prodotto della democrazia e della politica ma di Anno-zero!”. E tutti si chiedono perché i talk-show siano “di sinistra”, senza raccontare perché (a parte Saccà, che difende persinoExcalibur!) perché quelli “di destra” sono stati chiusi. Nessuno parla del conflitto di interessi. E solo il direttore de Il Tempo, Mario Sechi, parla della grande rimozione: “Siamo giornalisti conservatori, ma non possiamo avere fette di salame sugli occhi. Se Berlusconi perde bisogna dirlo! Se sbaglia candidato bisogna dirlo!”. Speriamo che San-giuliano, mentre combatte l’egemonia dei soviet di Saxa Rubra, ricordi almeno queste parole al suo Minzolini.
da Il Fatto Quotidiano del 15 giugno 2011