La notizia del suo arresto aveva fatto rapidamente il giro del mondo, alla fine di maggio. Manal Alsharif era stata prelevata da casa sua il 15 maggio, dal personale del ministero dell’interno saudita, dopo che su YouTube era comparso un video «sovversivo»: la donna guidava la macchina tra le strade di Ryadh. Quindici giorni più tardi, dopo una rapida ed efficace campagna internazionale di pressione che ha viaggiato soprattutto su Internet e dopo una petizione al re Abdallah presentata dal padre di Manal, le autorità saudite sono state costrette a scarcerarla. Manal rimane comunque accusata di «infangare la reputazione del Regno e incitare alla protesta l’opinione pubblica». Tutto per aver guidato la macchina.
L’arresto, peraltro, non è affatto scontato. Di solito in caso di «violazione» delle norme da parte di una donna, viene chiamato il suo «custode legale» (il marito o il parente maschio più prossimo) ed è lui a essere redarguito o multato. L’arresto di Manal ha quindi mandato in cortocircuito il sistema saudita, con il rischio di innescare un effetto valanga.
Subito dopo l’arresto di Manal, il giudice incaricato di seguire il suo «caso» aveva detto che la detenzione sarebbe durata almeno un mese, e che la donna – master in economia negli Stati Uniti, divorziata e con un bambino di quattro anni – non sarebbe rientrata a casa sua prima del 17 giugno. La data è venuta fuori così e da oggi le donne saudite si preparano a rompere il divieto di guidare l’auto, un divieto non scritto da nessuna parte nelle leggi del regno, e reso efficace solo dal ferreo controllo del clero wahabbita sui costumi sociali dei sudditi degli al Saud.
Come spiega la scrittrice e attivista saudita Hala al Dosari (coinvolta anche nella protesta di Manal) in un lungo intervento sul sito dell’emittente panaraba Al Jazeera, il divieto è una delle concessioni di facciata – a spese delle donne, soprattutto dei centri urbani – che la petromonarchia saudita paga alla lettura integralista dell’Islam su cui basa la propria legittimità politica. Nelle zone rurali, dove i controlli polizieschi sono più laschi e dov’è maggiore la necessità di spostamenti, le donne spesso guidano. Di nascosto e con grande rischio personale comunque.
Manal, all’uscita dal carcere, ha ringraziato il re e ha detto che non avrebbe preso parte alla giornata del 17 giugno, senza però mollare altre sue campagne, come quella per le colf straniere abbandonate nelle prigioni saudite dai loro datori di lavoro che non vogliono pagare le spese di rimpatrio.
Non è la prima volta che le donne saudite sfidano la famiglia regnante su questo terreno. All’inizio degli anni novanta, nel 1990 per la precisione, quando alcune donne, soprattutto di classe elevata, osarono guidare per le strade della capitale. La reazione della monarchia fu di accusarle di seguire «indicazioni provenienti dall’estero» e «di minare l’unità della nazione» attraverso la corruzione dei suoi presunti «costumi morali». Le donne coinvolte nella campagna furono punite duramente, per anni non hanno potuto né lavorare né viaggiare fuori dal paese.
Per la sfida che potrebbe iniziare il 17 giugno, le donne – quelle che sono in possesso di una patente di guida internazionale – hanno scelto un profilo basso: niente azioni pubbliche, comportarsi come se anche a Ryadh prendere da sole la macchina per andare in qualsiasi posto fosse la cosa più normale del mondo. La reazione delle autorità, in effetti, misurerà la portata della campagna. Se ci saranno atti «isterici», arresti e accuse fantasmagoriche come quelle mosse contro Manal, allora il Regno saudita potrebbe trovarsi davvero in imbarazzo di fronte all’opinione pubblica internazionale e nazionale. In un momento in cui nessuno dei regimi arabi gode di particolare credito o di garanzie di stabilità. Meglio, forse, lasciar correre, fare finta di nulla, come ha già cercato di fare il Consiglio, la Shura, consultiva che assiste il re nelle sue decisioni. La Shura ha già rifiutato di discutere due petizioni presentate da prominenti sauditi, uomini e donne, per il diritto delle donne a guidare. La motivazione è che si tratta di una questione «secondaria» rispetto a quelle di cui si occupa la Shura (tutta maschile) nella sua prossima riunione, dedicata alla questione del lavoro delle donne laureate.
Di sicuro, però, a partire da oggi, la polizia saudita sarà ancora più attenta a tenere sotto controllo YouTube e i social network, per capire se altre donne hanno «osato» caricare video o foto del loro atto di sovversione: girare le chiavi e ingranare la prima.
di Joseph Zarlingo Lettera 22