Dieci anni dopo sappiamo molto, ma non tutto. Sappiamo abbastanza di quello che è successo a Genova, quasi niente di quello che è successo a Roma. E il tragico G8 del 20 e 21 luglio 2001, con la morte di Carlo Giuliani, le battaglie campali nelle vie della città, i gravissimi abusi polizieschi alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, entra a buon diritto nel novero dei misteri italiani. Se ne discute in questo giorni nel capoluogo ligure, in un fitto programma di incontri e manifestazioni.
Diversi episodi irrisolti richiamano la strategia della tensione, sia pure in versione moderna, da terzo millennio. I silenzi e i depistaggi di Stato hanno ostacolato la ricerca della verità. Nessun esponente del governo e delle forze di polizia dell’epoca, in questi dieci anni, si è assunto la minima responsabilità per quello che è accaduto. Nessuno ha mai chiesto scusa alle vittime innocenti. I processi principali sono ancora aperti, in attesa dei verdetti definitivi di Cassazione.
Dieci anni dopo, insomma, il G8 di Genova è un caso ancora aperto.
Grazie alle inchieste della magistratura, alle centinaia di testimonianze raccolte, alle migliaia di immagini scattate allora da videocamere e fotocamere “indipendenti”, emergono però con precisione diversi momenti in cui questa moderna strategia della tensione si è dispiegata. Sono gli snodi che hanno determinato gli eventi più drammatici. Sono altrettante domande per chi all’epoca fece e disfece i piani dell’ordine pubblico, e poi si attivò per cancellare ogni traccia.
1. La costruzione della paura
Tra febbraio e luglio del 2001, sono diffusi attraverso i media gli scenari più allarmanti sull’ordine pubblico, che vanno ben oltre quello che accadrà davvero a Genova. E’ evidente l’attività di “pr” dei servizi segreti e degli apparati di sicurezza italiani (e non solo). Rapporti “riservati” contenenti le più truci previsioni finiscono regolarmente sulle scrivanie dei giornalisti, che naturalmente pubblicano tutto, dato il contenuto spettacolare di molte informative e la spasmodica attesa che si crea intorno alla contestazione organizzata dal movimento contro la globalizzazione neoliberista.
Tra le operazioni mediatiche di maggior successo va ricordata la storia dei palloncini pieni di sangue infetto che i manifestanti avrebbero lanciato contro poliziotti e carabinieri. E’ il Sisde il primo a diffondere questa voce, ripresa da La Stampa il 13 aprile: tra le frange più violente dei cosidetti no global, “i tedeschi, che promettono di portare sacchetti pieni di sangue. Non si sa se sarà sangue umano o animale. Nel dubbio ci potrà pure essere la paura che si tratti di sangue infetto”. Il 20 maggio, il Corriere della Sera cita “un rapporto dei nostri servizi» diffuso dall’Ansa, che prefigura “l’impiego di palloncini contenenti sangue infetto con il virus dell’Aids”.
Le veline vengono propalate senza alcun senso critico. Per esempio, il virus dell’Aids non sopravvive a lungo fuori dal corpo umano, il sangue tende a coaugulare, e soprattutto la logistica di una simile raccolta sarebbe complicata, pericolosa, folle. Chi le fa arrivare ai giornali sa di andare perfettamente incontro al gusto del sensazionale. E così passano nel circuito politico-mediatico visioni apocalittiche di copertoni incendiati da far rotolare verso i plotoni di polizia, piani per rapire agenti rimasti isolati, arance farcite di lamette, catapulte colme di sanpietrini, feroci cani pitbull, assalti alla zona rossa con deltaplani, aerei telecomandati, kayak…
Gli 11 mila uomini delle forze dell’ordine previsti dai piani di sicurezza (4.100 nella zona rossa, 6.800 fuori) arrivarono quindi a Genova molto carichi, decisi a vendere cara la pelle. E forti della “solidarietà preventiva” garantita da un gruppo di parlamentari del centrodestra, Alleanza nazionale in testa.
Dopo il G8 di Genova, il prefetto Arnaldo La Barbera dirà chiaramente al Comitato parlamentare d’indagine che questo superattivismo dei servizi non portò alcun contributo serio alle prevenzione degli incidenti, e anzi mandò in tilt la macchina investigativa, con una miriade di segnalazioni vaghe e dispendiose da verificare. Lo confermerà anni dopo Claudio Scajola, il ministro dell’interno del G8, intervistato nel documentario “Governare con la paura”.
Ecco allora il primo snodo del G8 di Genova: perché i servizi di sicurezza, o una parte di loro, hanno scientemente contribuito a far crescere la tensione nell’opinione pubblica e specialmente tra gli uomini che avrebbero gestito l’ordine pubblico in piazza?
2. La carica di via Tolemaide e la morte di Carlo Giuliani.
Ci sono anche rapporti investigativi buoni, secondo i quali il vero rischio disordini è rappresentato dal “blocco nero”, cioè autonomi e anarchici in arrivo da mezza Europa e ben accolti dai compagni italiani dei centri sociali più duri. Due informative del Sisde, agli atti del Comitato d’indagine, informavano la Digos di Genova con un giorno d’anticipo “che circa 300-500 militanti si sarebbero concentrati, alle ore 12 in piazza Paolo Da Novi”. Tutto giusto, a parte l’orario: i neri si fecero vedere già alle dieci, cominciando ad armarsi nella piazza tematica dei Cobas.
Mentre i black bloc agiscono indisturbati, attaccando banche, finanziarie e persino il carcere di Marassi, l’attenzione politico-mediatico-poliziesca è concentrata sul corteo delle Tute bianche di Luca Casarini, intenzionate a praticare la disobbedienza civile contro il divieto di accesso alla zona rossa, ma non a commettere violenze.
Come confermerà al Comitato d’indagine il questore di Genova Francesco Colucci, i vertici romani della polizia di Stato e i Disobbedienti si erano accordati per una “sceneggiata” in favore di telecamera, nella quale ci sarebbe stato un fronteggia mento simbolico ma nessuno si sarebbe fatto male.
Il piano salta perché un contingente di carabinieri del Battaglione Lombardia, diretto a Marassi per contrastare i balck bloc, non obbedisce agli ordini e, giunto in via Tolemaide, attacca a freddo il corteo composto da circa 15 mila persone, in un punto praticamente privo di vie di fuga. Il contingente è comandato dal capitano Antonio Bruno, che ordina la carica senza neppure consultarsi con il dirigente di polizia Mario Mondelli, nonostante la legge prescriva che nelle decisioni di ordine pubblico siano sempre i funzionari della questura a prendere le decisioni.
Dalla centrale operativa arrivano ordini concitati di far passare il corteo e di farlo arrivare al limite della zona rossa, ma viene disatteso. E’ in quel momento preciso, alle 14,53, che il G8 di Genova prende una piega drammatica. La carica scatena una guerriglia urbana che culmina, alle 17,27, con la morte di Carlo Giuliani nella vicina piazza Alimonda, ucciso da un colpo di pistola sparato da un Defender dei carabinieri rimasto isolato e attaccato da alcuni manifestanti. Il colpo sarebbe partito dal carabiniere ausiliario Mario Placanica, poi prosciolto in istruttoria per legittima difesa, che però nel corso degli anni dichiarerà a più riprese di non essere certo di aver soarato il colpo mortale.
Clamorose le conclusioni dei giudici al processo per i disordini di piazza, che pure si concluderà con numerose condanne ai danni di manifestanti. “Si è trattato di un’aggressione ingiusta portata da un numero considerevole di pubblici ufficiali ai danni di una collettività organizzata”, si legge nelle motivazioni di primo grado. “Costruendo e portando avanti le barricate su Via D’Invrea e Via Casaregis, resistendo agli attacchi dei militari a piedi e poi dei blindati, inseguendo questi fino allo slargo di Corso Torino, i manifestanti hanno inteso non solo raggiungere i compagni del corteo, ma anche e soprattutto ‘riconquistare’ il diritto a manifestare liberamente, diritto del quale erano stati privati arbitrariamente”. In altre parole, i Disobbedienti di Casarini stavano dalla parte della legge, i carabinieri l’hanno violata.
E’ il secondo snodo, sul quale aleggia un interrogativo messo nero su bianco anche dai giudici: l’attacco al corteo dei Disobbedienti è stato soltanto il frutto di una serie di errori degli uomini in divisa o qualcuno ha creato di proposito un incidente destinato a far precipitare la situazione dell’ordine pubblico? E, nel caso, perché?
3. Sabato 21 luglio, la “nuova gestione” degli uomini di De Gennaro
Il bilancio del 20 luglio è pesantissimo. Un ragazzo morto, ore di scontri sanguinosi, vasti danneggiamenti provocati dal blocco nero. E sabato 21 è in programma il grande corteo internazionale che mette insieme tutte le componenti del Genoa Social Forum, il cartello di associazioni che ha organizzato le proteste contro gli otto “grandi” riuniti a Palazzo Ducale, protetti dalle grate di ferro che cingono la zona rossa. Nessuno quella sera lo sa, ma nella caserma di Bolzaneto, una sorta di carcere provvisorio istituito per tenere i fermati lontani dai penitenziari cittadini, sono già cominciati gli abusi e le violenze contro i manifestanti finiti in manette durante gli scontri. Le loro storie emergeranno soltanto qualche giorno dopo.
Cambiano allora le strategie: “Sono stato esautorato” dirà al processo Diaz Ansoino Andreassi, già vicecapo della polizia, responsabile dell’ordine pubblico al G8 fino a quel momento. Andreassi, fama di democratico (“estremista di sinistra”, lo definisce un documento in stile servizi ritrovato a Roma un mese prima del G8, che tra l’altro prefigura con raggelante esattezza la scena della morte di Carlo Giuliani), capisce di essere stato messo da parte nel pomeriggio di sabato 21 luglio quando, verso le 16, arriva a Genova il prefetto Arnaldo La Barbera, leggendario “sbirro” antimafia, in quel momento capo dell’Ucigos, l’ufficio di coordinamento delle Digos di tutta Italia.
Un paio d’ore prima, gli uomini del Servizio centrale operativo della polizia, guidati da Franco Gratteri, escono dalla zona rossa, dover erano stati assegnati a tutela della sicurezza del vertice. In sostanza, i dirigenti di fiducia del capo della polizia, Gianni De Gennaro, prendono in mano la situazione del’ordine pubblico. Con quale filosofia? Sarà ancora Andreassi a spiegarlo: “Procedere ad arresti per cancellare l’immagine di una polizia rimasta inerte di fronte alla devastazione e al saccheggio della città”.
E’ un’altra svolta cruciale, perché la nuova strategia, poche ore più tardi, porterà a un altro momento tragico del G8: la sanguinosa irruzione alla scuola Diaz. Chi decide di metter fuori gioco Andreassi? Le scelte di ordine pubblico sono fatte dai “tecnici”, come De Gennaro, o dai politici? E, in questo caso, da chi? Dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi? Dal minsitro dell’Interno Claudio Scajola? O dal vicepresidente del consiglio Gianfranco Fini, capo del partito che più di tutti aveva sposato il pugno duro contro i manifestanti e la solidarietà preventiva a polizia e carabinieri?
4. Il blitz alla Diaz (e successive amnesie)
La manifestazione di sabato 21 luglio finisce con altri scontri sanguinosi. I black bloc innescano la scintilla con qualche lancio di sassi contro la polizia schierata alla Fiera del Mare, che risponde con cariche violentissime e prolungate, spezzando in due il corteo. Il pestaggio di persone inermi, signore, ragazzini, anziani, è testimoniato da decine di filmati.
Almeno però è finita. La sera di sabato il G8 smobilita. Il vertice è chiuso, non ci sono altre manifestazioni in programma. Gli attivisti della protesta antiliberista si apprestano a passare l’ultima notte a Genova per ripartire l’indomani mattina.
Invece no. Verso mezzanotte si sparge la voce di un’irruzione alla scuola Diaz, di fronte al media center del Gsf. La scuola è un dormitorio che ospita decine di manifestanti. E’ proprio uno dei “pattuglioni” di polizia disposti dopo la fine della manifestazioni per “fare arresti” che origina il caso. Il pattuglione è contestato e attaccato con il lancio di un paio di bottiglie quando passa davanti alla scuola in via Battisti. Niente di grave, ma segue una riunione in questura in cui i massimi vertici di polizia presenti a Genova, La Barbera in testa.
L’operazione si conclude in un massacro: dei 93 arrestati, una sessantina risultano feriti, venti dei quali necessitano di ricovero in ospedale. Sono paradossalmente i più fortunati, perché gli altri vengono trasferiti a Bolzaneto, dove subiscono nuove violenze e umiliazioni. Ci sono due codici rossi, che rischiano sul serio di lasciarci la pelle. Tutti gli occupanti della scuola sono accusati di associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, un reato che può costare fino a 15 anni di carcere. Sono tutti accusati, in sostanza, di essere dei black bloc, compreso un signore vicentino di sessant’anni, Arnaldo Cestaro.
Che cosa è successo esattamente alla Diaz? Il quadro che esce dal processo è abbastanza chiaro. La perquisizione viene disposta per l’esigenza di fare arresti e riscattare la brutta figura delle forze dell’ordine, specialmente con il mancato contrasto del blocco nero. Nell’imminenza del blitz, infatti, vengono avvertiti i giornalisti delle principali testate. I vertici della polizia non lo avrebbero fatto, se avessero avuto fin dal principio intenzione di abbandonarsi a una sanguinosa spedizione punitiva. Nel percorso tra la questura e la Diaz, il contingente cresce a dismisura, con agenti e funzionari che si aggregano di loro spontanea volontà, senza un ordine di servizio, tanto che ancora oggi non sappiamo quani poliziotti arrivarono effettivamente davanti alla scuola: le stime variano da 292 a 495. Un esercito.
Quando scatta l’irruzione, la truppa va fuori controllo. Il motivo si può solo immaginare: frustrazione e voglia di vendetta dopo due giorni di scontri, convinzione di trovarsi davvero di fronte i neri devastatori, se non addirittura dei “terroristi”, l’odio politico verso le “zecche comuniste”, molto diffuso tra gli uomini in divisa, come dimostrano anche i fatti di Bolzaneto. Arnaldo La Barbera,sul posto al momento dell’irruzione, lo dirà chiaramente il 19 giugno 2002 in un interrogatorio davanti al pm Enrico Zucca, poco prima di morire. Un attimo prima del via, La Barbera suggerisce di mollare il colpo: “Partendo da questo nervosismo che io avevo notato, certamente le cose non sarebbero andate bene, perché ognuno conosce gli animali suoi, dottore”.
La prova provata dello spirito di quella perquisizione è il massacro di Mark Covell, mediattivista inglese che ha la sventura di trovarsi da solo in strada all’arrivo dell’esercito in divisa blu. Come documentano i filmati, viene pestato a sangue da diverse ondate di poliziotti, anche se l’irruzione non è neppure cominciata e lui è solo, inerme, magrolino per giunta. E’ uno dei codici rossi di quella sera. Tra le decine e decine e decine di poiziotti verosimilmente testimoni oculari della scena, nessuno troverà la voglia o il coraggio di aiutare la giustizia a individuare i responsabili di quello che la procura di Genova classifica come un tentato omicidio. Lo stesso accadrà per tutte le violenze perpetrate all’interno della scuola.
Oltre a La Barbera, nel cortile della scuola sono presenti i vertici della polizia investigativa italiana. Franco Gratteri e Gilberto Caldarozzi, capo e vice dello Sco. Gianni Luperi, numero due di La Barbera all’Ucigos. Vincenzo Canterini è invece il comandante del Reparto mobile di Roma, da cui il Settimo nucleo sperimentale, una sorta di élite dell’ordine pubblico creata apposta per il G8. Sarebbe lui il destinatario del consiglio di La Barbera (ma Canterini ha sempre smentito). La promessa riscossa dello stato contro i violenti del G8 si trasforma in un disastro di immagine, con le telecamere che riprendono una sconvolgente sfilata di ragazzi feriti e pozzanghere di sangue sui pavimenti della scuola.
Bisogna metterci una pezza. Così parte il grande depistaggio, che sarà smascherato dall’inchiesta penale. Le due bottiglie molotov attribuite ai manifestanti sono state portate dentro dai poliziotti. L’aggressione denunciata da un agente non regge alla prova dei fatti. I verbali di arresto sono generici e pieni di circostanze false. Durante il processo, la reticenza degli alti dirigenti sui fatti della Diaz è totale. Nessuno comandava l’operazione, nessuno ha notato violenze, nessuno ha rilevato stranezze, nessuno ha fornito il minimo elemento per individuare i responsabili della “macelleria messicana” descritta anche dal comandante del VII nucleo, Michelangelo Fournier. La sua è l’unica testimonianza di un funzionario di polizia dall’interno dell’edificio scolastico. Parla di “colluttazioni unilaterali”, dove i manifestanti si limitano a subire botte e manganellate, e persino di un collega che “mima il coito” sopra una ragazza ferita a terra.
Dieci anni dopo, nel libro L’eclissi della democrazia di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci (Feltrinelli 2011), il pm Zucca racconta addirittura la proposta indecente arrivata per vie traverse ai magistrati genovesi: se non fate il processo Diaz, facciamo saltare anche quello contro i manifestanti. Come dire, zero a zero e non ci pensiamo più. E proprio dal processo Diaz ne è nato un altro, per falsa testimonianza, che coinvolge l’allora capo della polizia De Gennaro.
Ecco allora l’ultima grande domanda del G8 di Genova, a cui qualcuno dovrebbe finalmente rispondere. Perché i protagonisti di quella sciagurata operazione sono stati sempre protetti e hanno proseguito le loro brillantissime carriere?
Cronaca
G8 di Genova, mistero italiano
Quattro domande senza risposta
Di quello che accadde il 19 e 20 luglio ormai sappiamo molto, ma non tutto. Resta il buco nero delle responsabilità politiche. Dieci anni dopo, mancano le risposte su alcuni momenti cruciali: la strategia delle tensione orchestrata dai servizi, la carica di via Tolemaide, il cambio in corsa delle strategie di ordine pubblico, i depistaggi e le protezioni sul caso Diaz
Dieci anni dopo sappiamo molto, ma non tutto. Sappiamo abbastanza di quello che è successo a Genova, quasi niente di quello che è successo a Roma. E il tragico G8 del 20 e 21 luglio 2001, con la morte di Carlo Giuliani, le battaglie campali nelle vie della città, i gravissimi abusi polizieschi alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto, entra a buon diritto nel novero dei misteri italiani. Se ne discute in questo giorni nel capoluogo ligure, in un fitto programma di incontri e manifestazioni.
Diversi episodi irrisolti richiamano la strategia della tensione, sia pure in versione moderna, da terzo millennio. I silenzi e i depistaggi di Stato hanno ostacolato la ricerca della verità. Nessun esponente del governo e delle forze di polizia dell’epoca, in questi dieci anni, si è assunto la minima responsabilità per quello che è accaduto. Nessuno ha mai chiesto scusa alle vittime innocenti. I processi principali sono ancora aperti, in attesa dei verdetti definitivi di Cassazione.
Dieci anni dopo, insomma, il G8 di Genova è un caso ancora aperto.
Grazie alle inchieste della magistratura, alle centinaia di testimonianze raccolte, alle migliaia di immagini scattate allora da videocamere e fotocamere “indipendenti”, emergono però con precisione diversi momenti in cui questa moderna strategia della tensione si è dispiegata. Sono gli snodi che hanno determinato gli eventi più drammatici. Sono altrettante domande per chi all’epoca fece e disfece i piani dell’ordine pubblico, e poi si attivò per cancellare ogni traccia.
1. La costruzione della paura
Tra febbraio e luglio del 2001, sono diffusi attraverso i media gli scenari più allarmanti sull’ordine pubblico, che vanno ben oltre quello che accadrà davvero a Genova. E’ evidente l’attività di “pr” dei servizi segreti e degli apparati di sicurezza italiani (e non solo). Rapporti “riservati” contenenti le più truci previsioni finiscono regolarmente sulle scrivanie dei giornalisti, che naturalmente pubblicano tutto, dato il contenuto spettacolare di molte informative e la spasmodica attesa che si crea intorno alla contestazione organizzata dal movimento contro la globalizzazione neoliberista.
Tra le operazioni mediatiche di maggior successo va ricordata la storia dei palloncini pieni di sangue infetto che i manifestanti avrebbero lanciato contro poliziotti e carabinieri. E’ il Sisde il primo a diffondere questa voce, ripresa da La Stampa il 13 aprile: tra le frange più violente dei cosidetti no global, “i tedeschi, che promettono di portare sacchetti pieni di sangue. Non si sa se sarà sangue umano o animale. Nel dubbio ci potrà pure essere la paura che si tratti di sangue infetto”. Il 20 maggio, il Corriere della Sera cita “un rapporto dei nostri servizi» diffuso dall’Ansa, che prefigura “l’impiego di palloncini contenenti sangue infetto con il virus dell’Aids”.
Le veline vengono propalate senza alcun senso critico. Per esempio, il virus dell’Aids non sopravvive a lungo fuori dal corpo umano, il sangue tende a coaugulare, e soprattutto la logistica di una simile raccolta sarebbe complicata, pericolosa, folle. Chi le fa arrivare ai giornali sa di andare perfettamente incontro al gusto del sensazionale. E così passano nel circuito politico-mediatico visioni apocalittiche di copertoni incendiati da far rotolare verso i plotoni di polizia, piani per rapire agenti rimasti isolati, arance farcite di lamette, catapulte colme di sanpietrini, feroci cani pitbull, assalti alla zona rossa con deltaplani, aerei telecomandati, kayak…
Gli 11 mila uomini delle forze dell’ordine previsti dai piani di sicurezza (4.100 nella zona rossa, 6.800 fuori) arrivarono quindi a Genova molto carichi, decisi a vendere cara la pelle. E forti della “solidarietà preventiva” garantita da un gruppo di parlamentari del centrodestra, Alleanza nazionale in testa.
Dopo il G8 di Genova, il prefetto Arnaldo La Barbera dirà chiaramente al Comitato parlamentare d’indagine che questo superattivismo dei servizi non portò alcun contributo serio alle prevenzione degli incidenti, e anzi mandò in tilt la macchina investigativa, con una miriade di segnalazioni vaghe e dispendiose da verificare. Lo confermerà anni dopo Claudio Scajola, il ministro dell’interno del G8, intervistato nel documentario “Governare con la paura”.
Ecco allora il primo snodo del G8 di Genova: perché i servizi di sicurezza, o una parte di loro, hanno scientemente contribuito a far crescere la tensione nell’opinione pubblica e specialmente tra gli uomini che avrebbero gestito l’ordine pubblico in piazza?
2. La carica di via Tolemaide e la morte di Carlo Giuliani.
Ci sono anche rapporti investigativi buoni, secondo i quali il vero rischio disordini è rappresentato dal “blocco nero”, cioè autonomi e anarchici in arrivo da mezza Europa e ben accolti dai compagni italiani dei centri sociali più duri. Due informative del Sisde, agli atti del Comitato d’indagine, informavano la Digos di Genova con un giorno d’anticipo “che circa 300-500 militanti si sarebbero concentrati, alle ore 12 in piazza Paolo Da Novi”. Tutto giusto, a parte l’orario: i neri si fecero vedere già alle dieci, cominciando ad armarsi nella piazza tematica dei Cobas.
Mentre i black bloc agiscono indisturbati, attaccando banche, finanziarie e persino il carcere di Marassi, l’attenzione politico-mediatico-poliziesca è concentrata sul corteo delle Tute bianche di Luca Casarini, intenzionate a praticare la disobbedienza civile contro il divieto di accesso alla zona rossa, ma non a commettere violenze.
Come confermerà al Comitato d’indagine il questore di Genova Francesco Colucci, i vertici romani della polizia di Stato e i Disobbedienti si erano accordati per una “sceneggiata” in favore di telecamera, nella quale ci sarebbe stato un fronteggia mento simbolico ma nessuno si sarebbe fatto male.
Il piano salta perché un contingente di carabinieri del Battaglione Lombardia, diretto a Marassi per contrastare i balck bloc, non obbedisce agli ordini e, giunto in via Tolemaide, attacca a freddo il corteo composto da circa 15 mila persone, in un punto praticamente privo di vie di fuga. Il contingente è comandato dal capitano Antonio Bruno, che ordina la carica senza neppure consultarsi con il dirigente di polizia Mario Mondelli, nonostante la legge prescriva che nelle decisioni di ordine pubblico siano sempre i funzionari della questura a prendere le decisioni.
Dalla centrale operativa arrivano ordini concitati di far passare il corteo e di farlo arrivare al limite della zona rossa, ma viene disatteso. E’ in quel momento preciso, alle 14,53, che il G8 di Genova prende una piega drammatica. La carica scatena una guerriglia urbana che culmina, alle 17,27, con la morte di Carlo Giuliani nella vicina piazza Alimonda, ucciso da un colpo di pistola sparato da un Defender dei carabinieri rimasto isolato e attaccato da alcuni manifestanti. Il colpo sarebbe partito dal carabiniere ausiliario Mario Placanica, poi prosciolto in istruttoria per legittima difesa, che però nel corso degli anni dichiarerà a più riprese di non essere certo di aver soarato il colpo mortale.
Clamorose le conclusioni dei giudici al processo per i disordini di piazza, che pure si concluderà con numerose condanne ai danni di manifestanti. “Si è trattato di un’aggressione ingiusta portata da un numero considerevole di pubblici ufficiali ai danni di una collettività organizzata”, si legge nelle motivazioni di primo grado. “Costruendo e portando avanti le barricate su Via D’Invrea e Via Casaregis, resistendo agli attacchi dei militari a piedi e poi dei blindati, inseguendo questi fino allo slargo di Corso Torino, i manifestanti hanno inteso non solo raggiungere i compagni del corteo, ma anche e soprattutto ‘riconquistare’ il diritto a manifestare liberamente, diritto del quale erano stati privati arbitrariamente”. In altre parole, i Disobbedienti di Casarini stavano dalla parte della legge, i carabinieri l’hanno violata.
E’ il secondo snodo, sul quale aleggia un interrogativo messo nero su bianco anche dai giudici: l’attacco al corteo dei Disobbedienti è stato soltanto il frutto di una serie di errori degli uomini in divisa o qualcuno ha creato di proposito un incidente destinato a far precipitare la situazione dell’ordine pubblico? E, nel caso, perché?
3. Sabato 21 luglio, la “nuova gestione” degli uomini di De Gennaro
Il bilancio del 20 luglio è pesantissimo. Un ragazzo morto, ore di scontri sanguinosi, vasti danneggiamenti provocati dal blocco nero. E sabato 21 è in programma il grande corteo internazionale che mette insieme tutte le componenti del Genoa Social Forum, il cartello di associazioni che ha organizzato le proteste contro gli otto “grandi” riuniti a Palazzo Ducale, protetti dalle grate di ferro che cingono la zona rossa. Nessuno quella sera lo sa, ma nella caserma di Bolzaneto, una sorta di carcere provvisorio istituito per tenere i fermati lontani dai penitenziari cittadini, sono già cominciati gli abusi e le violenze contro i manifestanti finiti in manette durante gli scontri. Le loro storie emergeranno soltanto qualche giorno dopo.
Cambiano allora le strategie: “Sono stato esautorato” dirà al processo Diaz Ansoino Andreassi, già vicecapo della polizia, responsabile dell’ordine pubblico al G8 fino a quel momento. Andreassi, fama di democratico (“estremista di sinistra”, lo definisce un documento in stile servizi ritrovato a Roma un mese prima del G8, che tra l’altro prefigura con raggelante esattezza la scena della morte di Carlo Giuliani), capisce di essere stato messo da parte nel pomeriggio di sabato 21 luglio quando, verso le 16, arriva a Genova il prefetto Arnaldo La Barbera, leggendario “sbirro” antimafia, in quel momento capo dell’Ucigos, l’ufficio di coordinamento delle Digos di tutta Italia.
Un paio d’ore prima, gli uomini del Servizio centrale operativo della polizia, guidati da Franco Gratteri, escono dalla zona rossa, dover erano stati assegnati a tutela della sicurezza del vertice. In sostanza, i dirigenti di fiducia del capo della polizia, Gianni De Gennaro, prendono in mano la situazione del’ordine pubblico. Con quale filosofia? Sarà ancora Andreassi a spiegarlo: “Procedere ad arresti per cancellare l’immagine di una polizia rimasta inerte di fronte alla devastazione e al saccheggio della città”.
E’ un’altra svolta cruciale, perché la nuova strategia, poche ore più tardi, porterà a un altro momento tragico del G8: la sanguinosa irruzione alla scuola Diaz. Chi decide di metter fuori gioco Andreassi? Le scelte di ordine pubblico sono fatte dai “tecnici”, come De Gennaro, o dai politici? E, in questo caso, da chi? Dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi? Dal minsitro dell’Interno Claudio Scajola? O dal vicepresidente del consiglio Gianfranco Fini, capo del partito che più di tutti aveva sposato il pugno duro contro i manifestanti e la solidarietà preventiva a polizia e carabinieri?
4. Il blitz alla Diaz (e successive amnesie)
La manifestazione di sabato 21 luglio finisce con altri scontri sanguinosi. I black bloc innescano la scintilla con qualche lancio di sassi contro la polizia schierata alla Fiera del Mare, che risponde con cariche violentissime e prolungate, spezzando in due il corteo. Il pestaggio di persone inermi, signore, ragazzini, anziani, è testimoniato da decine di filmati.
Almeno però è finita. La sera di sabato il G8 smobilita. Il vertice è chiuso, non ci sono altre manifestazioni in programma. Gli attivisti della protesta antiliberista si apprestano a passare l’ultima notte a Genova per ripartire l’indomani mattina.
Invece no. Verso mezzanotte si sparge la voce di un’irruzione alla scuola Diaz, di fronte al media center del Gsf. La scuola è un dormitorio che ospita decine di manifestanti. E’ proprio uno dei “pattuglioni” di polizia disposti dopo la fine della manifestazioni per “fare arresti” che origina il caso. Il pattuglione è contestato e attaccato con il lancio di un paio di bottiglie quando passa davanti alla scuola in via Battisti. Niente di grave, ma segue una riunione in questura in cui i massimi vertici di polizia presenti a Genova, La Barbera in testa.
L’operazione si conclude in un massacro: dei 93 arrestati, una sessantina risultano feriti, venti dei quali necessitano di ricovero in ospedale. Sono paradossalmente i più fortunati, perché gli altri vengono trasferiti a Bolzaneto, dove subiscono nuove violenze e umiliazioni. Ci sono due codici rossi, che rischiano sul serio di lasciarci la pelle. Tutti gli occupanti della scuola sono accusati di associazione per delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, un reato che può costare fino a 15 anni di carcere. Sono tutti accusati, in sostanza, di essere dei black bloc, compreso un signore vicentino di sessant’anni, Arnaldo Cestaro.
Che cosa è successo esattamente alla Diaz? Il quadro che esce dal processo è abbastanza chiaro. La perquisizione viene disposta per l’esigenza di fare arresti e riscattare la brutta figura delle forze dell’ordine, specialmente con il mancato contrasto del blocco nero. Nell’imminenza del blitz, infatti, vengono avvertiti i giornalisti delle principali testate. I vertici della polizia non lo avrebbero fatto, se avessero avuto fin dal principio intenzione di abbandonarsi a una sanguinosa spedizione punitiva. Nel percorso tra la questura e la Diaz, il contingente cresce a dismisura, con agenti e funzionari che si aggregano di loro spontanea volontà, senza un ordine di servizio, tanto che ancora oggi non sappiamo quani poliziotti arrivarono effettivamente davanti alla scuola: le stime variano da 292 a 495. Un esercito.
Quando scatta l’irruzione, la truppa va fuori controllo. Il motivo si può solo immaginare: frustrazione e voglia di vendetta dopo due giorni di scontri, convinzione di trovarsi davvero di fronte i neri devastatori, se non addirittura dei “terroristi”, l’odio politico verso le “zecche comuniste”, molto diffuso tra gli uomini in divisa, come dimostrano anche i fatti di Bolzaneto. Arnaldo La Barbera,sul posto al momento dell’irruzione, lo dirà chiaramente il 19 giugno 2002 in un interrogatorio davanti al pm Enrico Zucca, poco prima di morire. Un attimo prima del via, La Barbera suggerisce di mollare il colpo: “Partendo da questo nervosismo che io avevo notato, certamente le cose non sarebbero andate bene, perché ognuno conosce gli animali suoi, dottore”.
La prova provata dello spirito di quella perquisizione è il massacro di Mark Covell, mediattivista inglese che ha la sventura di trovarsi da solo in strada all’arrivo dell’esercito in divisa blu. Come documentano i filmati, viene pestato a sangue da diverse ondate di poliziotti, anche se l’irruzione non è neppure cominciata e lui è solo, inerme, magrolino per giunta. E’ uno dei codici rossi di quella sera. Tra le decine e decine e decine di poiziotti verosimilmente testimoni oculari della scena, nessuno troverà la voglia o il coraggio di aiutare la giustizia a individuare i responsabili di quello che la procura di Genova classifica come un tentato omicidio. Lo stesso accadrà per tutte le violenze perpetrate all’interno della scuola.
Oltre a La Barbera, nel cortile della scuola sono presenti i vertici della polizia investigativa italiana. Franco Gratteri e Gilberto Caldarozzi, capo e vice dello Sco. Gianni Luperi, numero due di La Barbera all’Ucigos. Vincenzo Canterini è invece il comandante del Reparto mobile di Roma, da cui il Settimo nucleo sperimentale, una sorta di élite dell’ordine pubblico creata apposta per il G8. Sarebbe lui il destinatario del consiglio di La Barbera (ma Canterini ha sempre smentito). La promessa riscossa dello stato contro i violenti del G8 si trasforma in un disastro di immagine, con le telecamere che riprendono una sconvolgente sfilata di ragazzi feriti e pozzanghere di sangue sui pavimenti della scuola.
Bisogna metterci una pezza. Così parte il grande depistaggio, che sarà smascherato dall’inchiesta penale. Le due bottiglie molotov attribuite ai manifestanti sono state portate dentro dai poliziotti. L’aggressione denunciata da un agente non regge alla prova dei fatti. I verbali di arresto sono generici e pieni di circostanze false. Durante il processo, la reticenza degli alti dirigenti sui fatti della Diaz è totale. Nessuno comandava l’operazione, nessuno ha notato violenze, nessuno ha rilevato stranezze, nessuno ha fornito il minimo elemento per individuare i responsabili della “macelleria messicana” descritta anche dal comandante del VII nucleo, Michelangelo Fournier. La sua è l’unica testimonianza di un funzionario di polizia dall’interno dell’edificio scolastico. Parla di “colluttazioni unilaterali”, dove i manifestanti si limitano a subire botte e manganellate, e persino di un collega che “mima il coito” sopra una ragazza ferita a terra.
Dieci anni dopo, nel libro L’eclissi della democrazia di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci (Feltrinelli 2011), il pm Zucca racconta addirittura la proposta indecente arrivata per vie traverse ai magistrati genovesi: se non fate il processo Diaz, facciamo saltare anche quello contro i manifestanti. Come dire, zero a zero e non ci pensiamo più. E proprio dal processo Diaz ne è nato un altro, per falsa testimonianza, che coinvolge l’allora capo della polizia De Gennaro.
Ecco allora l’ultima grande domanda del G8 di Genova, a cui qualcuno dovrebbe finalmente rispondere. Perché i protagonisti di quella sciagurata operazione sono stati sempre protetti e hanno proseguito le loro brillantissime carriere?
Articolo Precedente
Lodo Mondadori, Fininvest: “Risarciremo Cir entro il 26 luglio, poi faremo ricorso”
Articolo Successivo
Penati si autosospende dalla vicepresidenza
del Consiglio regionale lombardo
Gentile lettore, la pubblicazione dei commenti è sospesa dalle 20 alle 9, i commenti per ogni articolo saranno chiusi dopo 72 ore, il massimo di caratteri consentito per ogni messaggio è di 1.500 e ogni utente può postare al massimo 150 commenti alla settimana. Abbiamo deciso di impostare questi limiti per migliorare la qualità del dibattito. È necessario attenersi Termini e Condizioni di utilizzo del sito (in particolare punti 3 e 5): evitare gli insulti, le accuse senza fondamento e mantenersi in tema con la discussione. I commenti saranno pubblicati dopo essere stati letti e approvati, ad eccezione di quelli pubblicati dagli utenti in white list (vedere il punto 3 della nostra policy). Infine non è consentito accedere al servizio tramite account multipli. Vi preghiamo di segnalare eventuali problemi tecnici al nostro supporto tecnico La Redazione
Politica
Cecilia Sala è arrivata in Italia: libera dopo 21 giorni. L’abbraccio con la famiglia. Meloni: “Sei stata forte”. Media Usa: “Trump ha dato il via libera su Abedini”
Palazzi & Potere
“Belloni non è stata all’altezza”: la frase di Tajani sull’ex capo dell’intelligence | Esclusivo
Giustizia & Impunità
Ramy, i pm valutano l’omicidio volontario. I video e le differenze con i verbali. Cucchi: “Via la divisa”. Fdi-Lega in difesa dei carabinieri
Roma, 8 gen (Adnkronos) - "Da due o tre giorni avevamo capito che eravamo quasi arrivati alla conclusione di questa vicenda". Lo ha detto Antonio Tajani a Porta a Porta sulla liberazione di Cecilia Sala.
"Stamattina l'ambasciarice è andata al carcere per la visita consolare e le hanno detto la visita è annullata per una buona notizia, l'ambasciarice ha capito e mi ha telefonato", ha raccontato il ministro degli Esteri spiegando tra l'altro: "Anche la famiglia è stata eccezionale, la mamma e il papà ci hanno dato una mano".
"La Santa Sede non ha dato una mano in maniera operativa ma c'è sempre stato sostegno. Ma non c'è stato un intervento del Vaticano", ha spiegato Tajani.
Roma, 8 gen (Adnkronos) - "Fermo restando che la mia posizione di condanna è assoluta per alcuni gesti apologetici, avendo conosciuto quei ragazzi, Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni, i primi due uccisi da terroristi ai quali non si è mai dato un nome, esprimo il rammarico per il fatto che la Procura della Repubblica di Roma in 45 anni non abbia mai aperto una seria inchiesta sulla strage di Acca Larenzia". Il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri, intervenendo nell’aula del Senato.
"Noi chiediamo la verità su tante vicende italiane. Nei giorni scorsi, si è saputa una possibile verità sull’omicidio di stampo mafioso di Piersanti Mattarella a Palermo. Ma sulla strage di Acca Larenzia le tracce ci sono, perché la mitraglietta Skorpion che uccise Bigonzetti e Ciavatta poi è stata utilizzata anche successivamente dalle Brigate Rosse -ha detto ancora Gasparri-. Quelli che ieri, sbagliando, hanno fatto i saluti romani non inneggiavano alle Brigate Rosse ma ricordavano, con una ritualità che io non condivido, dei militanti di un partito politico, non di terroristi".
"Mentre le Brigate Rosse sono quelle che hanno usato la mitraglietta Skorpion per uccidere Bigonzetti e Ciavatta, poi Lando Conti, ex sindaco di Firenze, e il professor Ruffilli che era un professore impegnato nella Democrazia Cristiana. Quindi quell'arma e chi l’ha usata è transitato nelle Brigate Rosse", ha proseguito l'esponente di FI.
(Adnkronos) - "Basterebbe un’inchiesta per capire quali gruppi della periferia di Roma sud e dell’estrema sinistra hanno fatto questo transito. C’è un libro di un giornalista che si chiama Nicola Rao che ha descritto queste vicende ed è una vergogna che la Procura della Repubblica di Roma non abbia mai fatto un'inchiesta seria. Io l'ho detto pubblicamente a Lo Voi e lo dico a tutti i Procuratori del passato. La magistratura evidentemente non ha voluto la verità su quella vicenda. Protesto, quindi, per le verità mancate di una pagina di storia italiana tragica", ha concluso Gasparri.
Roma, 8 gen (Adnkronos) - "Ho voluto partecipare in collegamento all'evento 'Comunità democratica' perché il partito cattolico è anacronistico, c'è bisogno di cominciare a discutere largamente di politica, di programmi, a far partecipare le persone e soprattutto di far diminuire l'astensione". Lo ha detto Romano Prodi a Otto e mezzo, su La7.
"C'è bisogno di cominciare a discutere, sono due anni che non si fa nel Paese. Queste iniziative sono benedette, penso che Schlein lo sappia", ha aggiunto Prodi proseguendo: "Deciderà Ruffini se entrare in politica o no. E' un uomo di qualità e dipenderà dalla rete che riuscirà a costruire. E' stato talmente bravo a combattere l'evasione fiscale che il Paese gli dovrebbe essere grato".
Roma, 8 gen (Adnkronos) - "Trump non vuole l'Europa coesa. Tratta Paese per Paese ed esercita su ciascuno una pressione particolare. Il problema è che Meloni non può essere portavoce o simbolo dell'Europa unita, Trump non lo permetterà mai". Lo ha detto Romano Prodi a Otto e mezzo, su La7.
"Trump e Musk ne dicono di tutti i colori e attaccano dall'interno i Paesi intervenendo; è il solito quadro: Trump imprevedibile. Prevedo un grande cambiamento. E' finita la globalizzazione economica e Trump tenta quella politica: l'intervento negli affari interni di tutti i Paesi", ha aggiunto.
"La cosa strana è che mentre oggi c'è stata una reazione dell'Onu sulle sue dichiarazioni, non ne ho viste da parte dell'Unione europea. Il problema è che un'UE divisa come oggi non riesce a formare una volontà politica comune; la presidente della Commissione deve mediare e non vuole rompere l'equilibrio. Non dice niente delle interferenze di Trump in Germania, in Gran Bretagna, in Italia. Il sovranismo si ferma all'obbedienza", ha detto ancora Prodi.
Roma, 8 gen (Adnkronos) - "Su Starlink, l'accordo col governo gli darebbe in mano tutti i dati che riguardano il nostro Paese. E' il momento che il governo decida se dare in mano ad altri la propria vita". Lo ha detto Romano Prodi a Otto e mezzo, su La7.
"Il vantaggio di Musk è che ha a disposizione una tecnologia pronta e potente. Non so se il governo firmerà, ma queste cose vanno fatte con una prudenza enorme e garanzie che non credo il nostro esecutivo sia in grado di ottenere. Così come sembrano essere le cose, io non firmerei. E l'idea che il rappresentante di uno Stato come è Musk si impadronisca di una realtà fondamentale di un altro Paese è un rischio enorme per la democrazia", ha aggiunto Prodi.
Roma, 8 gen (Adnkronos) - "Su Belloni, posso dire che è proprio brava, una servitrice dello Stato leale nei confronti del Paese e con capacità personali. Non ho la minima idea se verrà eventualmente coinvolta nelle istituzioni europee. Lei ha detto di no, ma queste cose devono maturare nel tempo. Ha le energie e le capacità, vedremo". Lo ha detto Romano Prodi a Otto e mezzo, su La7.
Roma, 8 gen (Adnkronos) - "Esprimo la mia felicità vera per il ritorno di Sala, la stessa che ho provato quando liberammo il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo in condizioni analoghe". Lo ha detto Romano Prodi a Otto e mezzo, su La7.
"Queste contrattazioni sono sempre molto complesse. Certamente c'è stato da Trump una specie di permesso o di tacito consenso. A differenza della mia esperienza, noi gioimmo tutti insieme, col ministro degli Esteri, il governo e anche i servizi. C'era anche la dottoressa Belloni, che aveva organizzato la liberazione; oggi è sembrato un evento molto solitario, solo della Meloni", ha aggiunto Prodi.