È difficile non vedere la superiore sensibilità e delicatezza delle caratteristiche femminili, o negare che questo tipo di società, basata sulla competizione in ogni singolo aspetto della vita, sia generata da smanie di stampo tipicamente maschile. Lo conferma anche un concetto chiamato “maschilità di mercato”. In cosa consiste? Nel fatto che essere virili significa essere forti, avere successo, essere capaci, affidabili, dominanti: tutte caratteristiche di quegli avidi bottegai che, nel corso degli ultimi due secoli, hanno preso il sopravvento (diventando ai giorni nostri importanti politici e uomini d’affari) sia sugli aristocratici dallo stile e dai gusti femminei, sia su quegli artigiani che, soddisfatti del loro operato ma non bisognosi di accumulare ricchezze all’infinito, si accontentavano di fare le cose bene e con cura.
Le definizioni di maschilità che la nostra cultura ha sviluppato non sono solo basate sul potere di alcuni uomini su altri uomini (magari di diversa etnia o credo religioso), ma anche e soprattutto sulle donne; oltre al fatto che, come afferma il sociologo Michael Kimmel, gli uomini americani (e occidentali in generale) sono ormai “espressione di una definizione di maschilità che trae identità dalla partecipazione alle logiche del mercato”, ossia a “un modello di maschilità che si basa sulla competizione omosociale”.
“È proprio questa idea di maschilità”, scrive Kimmel, “radicata nella sfera della produzione, della vita pubblica, che non si identifica più con il possesso della terra o con la virtù artigiana, bensì con la partecipazione e il successo nella competizione di mercato”. Per il sociologo americano la maschilità deve dunque essere dimostrata e, appena dimostrata, è nuovamente messa in discussione e va difesa un’altra volta: un processo senza fine che finisce per perdere di significato, diventando “un gioco nel quale vince chi, alla fine della vita, possiede più giocattoli”. In altre parole, per Kimmel il concetto di maschilità di mercato descrive “la definizione normativa della maschilità americana, con le sue caratteristiche di aggressività, competitività ed ansia”.
Aggressività, competitività, ansia: tutte caratteristiche della società della crescita a tutti i costi. Crescita economica e quindi crescita di profitti, potere, status. Una corsa infinita verso l’alto, in attesa di essere colti dalla vertigine. Perché, quindi, si può dire che la decrescita è donna? Perché, al contrario delle ansie e della competitività fine a se stessa evocate dalla maschilità di mercato, si propone di dare un freno a questo non-senso, a queste dimostrazioni di insicurezza tipiche delle nostre società “machiste” dominate da bulli di ogni risma (risaputamente tali perché caratterizzati da grandi insicurezze e mancanze che hanno continuamente bisogno di essere compensate).
Perché la decrescita, soprattutto se felice, propone la lentezza, il rispetto, la collaborazione… la durata. Non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno, così come una donna, in quanto tale, non ha bisogno di dimostrare o di ostentare la propria femminilità. A meno che, sempre assoggettandosi ai voleri dei “maschi di mercato”, non sia disposta a diventare un modello della bellezza preconfezionata decisa a tavolino dal marketing e dalla pubblicità, se non addirittura un oggetto.
La decrescita è quanto di più femminile si possa immaginare, un antidoto alle tensioni competitive, alle eterne frustrazioni di un ideale di superman impossibile da raggiungere, alle ansie da prestazione (in qualunque campo le si vogliano intendere o temere), ancora una volta tipiche dell’uomo occidentale moderno.
Cosa c’è di più bello dell’essere accolti, abbracciati con calore, rassicurati, invece che vivere la propria intera esistenza come una gara di corsa veloce? Cosa c’è di più sensato dello smettere di sfruttare risorse in rapido esaurimento, magari solo per finire la propria esistenza dimostrando a tutti che si sono accumulati “più giocattoli” di quanto abbiano potuto o saputo fare i bambinoni attorno a noi?
Nulla, per chi ha capito che accumulare giocattoli non è necessariamente il fine ultimo dell’esistenza umana. Una vita di corse, ansie e frustrazioni per tutti coloro che, invece, non hanno ancora avuto modo di tenere a freno l’aggressività del maschio dominante. In una società, però, in cui egli è tutto tranne che dominante, in quanto schiavo di se stesso e delle sue ambizioni. O deliri, che da un paio di secoli a questa parte, sono arrivati addirittura a volere sfidare e dominare la natura. Anzi, Madre Natura.