Virginio Merola, sindaco di Bologna, aveva 25 anni quando esplose la bomba alla stazione di Bologna. Lavorava come trimestrale vicino a piazza Medaglie d’Oro, impiegato delle poste, e tirava a compare di rinnovo in rinnovo di contratto. Oggi, ricordando quel giorno, quando sentì la detonazione e scoprì in breve cos’era accaduto a pochi passi da lui, dice di rivedere “non poche emozioni. Emozioni che ancora oggi accomunano tutti”.
Tutti quelli in piazza nel trentunesimo anniversario della strage del 2 agosto 1980, ma anche tutti coloro – vittime, sopravvissuti, familiari – che in Italia e anche all’estero, fin in tempi recentissimi, si trovano a fare i conti con il terrorismo. Tanto che il primo cittadino del capoluogo emiliano, quando sente riproporre temi come riabilitazione degli esecutori materiali e piste “alternative” mai a oggi suffragate da elementi di prova, si stringe le spalle e si lascia andare a un “mamma mia”.
Poi, dal palco, sotto il sole a picco che tradizionalmente accompagna le celebrazioni, aggiunge: “Continuare a combattere per verità e giustizia è il tratto distintivo di una città che si ritrova ogni anno a fare i conti con la propria memoria e che fa di questo elemento un tratto fondamentale del suo senso di appartenenza a una nazione democratica”. Può sembrare retorica eppure i toni delle autorità – da quelle locali alle europee – oggi in piazza non lasciano trasparire parole dovute ricordando 85 morti e 200 feriti falciati da un ordigno composto da tritolo e T4.
Sergio Lo Giudice, consigliere comunale del Pd e presidente onorario dell’Arcigay, si guarda intorno e osserva tutti coloro che gli sfilano a fianco: “Il fatto che ci sia molta gente non è un caso, ma rappresenta il fatto che Bologna continua a essere una comunità coesa intorno a una serie di principi: quelli della democrazia, della verità, della giustizia. Sono parole d’ordine che fanno di questa mattina un momento ricco di partecipazione e pieno di contenuti”.
Lungo il corteo partito da piazza del Nettuno, a due passi da palazzo d’Accursio, sede del Comune, per arrivare nel piazzale antistante la stazione, c’è un sindaco che viene dalla Puglia. È Michele Emiliano, eletto a Bari nel 2004 e confermato nel 2009. È qui perché la città che rappresenta è tra quelle che, dopo Bologna, ha registrato il più alto numero di vittime nell’attentato del 2 agosto 1980 e perché tra lui e il capoluogo c’è un legame personale. “Sono nato a Bari, ma mio padre perse il lavoro e si trasferì qui quando ero ancora un bambino. Dunque Bologna è stato il primo posto in cui sono andato a scuola e ho visto il mondo”.
Quando la bomba esplose nella sala d’aspetto di seconda classe, Emiliano aveva 21 anni ed era in vacanza su un’isola della Grecia dove la televisione non arrivava. “Della strage ho saputo il giorno dopo, il 3 agosto, comprando un giornale italiano. Conservo ancora quel giornale, non l’ho mai gettato”. Cosa significa dunque sfilare verso il palco della stazione? “Significa ribadire che vogliamo sapere. Credo che la città di Bologna e l’Italia non abbiano paura di conoscere la verità, anche se fosse diversa da quella accertata nelle sentenze. Però bisogna portare i fatti, non chiacchierare e confondere le idee alle persone. Se avremo la forza di aprire le nostre procure per l’accertamento della verità, l’Italia e gli italiani potranno cambiare più facilmente. Oggi però dobbiamo avere consapevolezza che i documenti che raccontano la nostra storia sono ancora custoditi. Esiste quella che definirei una borghesia piccola che pensa che si possa andare avanti nascondendo queste vergogne da qualche parte”.
Che cosa possono fare i sindaci perché gli armadi della vergogna si aprano? “Un sindaco può fare molto chiasso. Spesso si passa per matti o per dei rompiscatole quando si alza la voce, ma si deve avere il coraggio di dire che la verità viene prima di qualsiasi accertamento politico. Quando invece la verità è piegata a una qualche ragion di Stato, diventa un mostro che porta al fallimento”.
David Sassoli, giornalista e oggi europarlamentare del Pd, sfila poco dietro a Emiliano e sostiene che “il discrimine fra la vecchia e nuova Italia passa dal ricordo del 2 agosto di 31 anni fa. Non è soltanto un’annotazione per le nostre agende, qui c’è una richiesta di giustizia, di verità, di togliere una cappa che ha pesato sulla storia del Paese. Non è soltanto un problema di insensibilità il fatto che il governo sia assente, è un atto di irresponsabilità. Vuol dire non impegnarsi a togliere quella cappa velenosa che ha prodotto ingiustizia. Una cappa fatta di tanti elementi: bugie, verità annacquate, depistaggi. Se non la si toglie, il futuro sarà vincolato ancora a una memoria che non fa giustizia. Inoltre dall’apertura degli archivi della vergogna passa anche un Paese che si vuole più bene, che pensa che il futuro debba essere diverso dal passato”.
E anche un collega di Sassoli a Bruxelles, Salvatore Caronna, un passato politico a Bologna prima di diventare eurodeputato, è sulla stessa linea. Annunciando che l’Europa deve intervenire sulle questioni delle verità non disvelate. “Per quanto riguarda l’apertura degli armadi della vergogna e la rimozione del segreto di Stato sui fatti di strage e terrorismo, siamo già in contatto con l’associazione vittime per portare a livello europeo una spinta che trasformi l’idea del segreto di Stato in uno strumento utile alle indagini. Non può e non deve rimanere una formula per nascondere la ricerca della verità laddove si verificano fatti delittuosi”.