Teruo Hirakane prega sulle macerie della sua casa portata via dallo tsunami dell'11 marzo (Otsuchi, prefettura di Iwate)

Otsuchi (Iwate, Giappone). Tra le macerie si solleva odore di incenso. Alle cinque di mattina, come ogni giorno, Teruo Hirakane versa del tè verde in due coppe di terracotta e le dispone su una tavoletta di legno posata a terra come un piccolo altare buddista. Poi accende due sigarette, che lascia spegnere mentre prega qualche istante in ginocchio. “Questo era il salotto, di là il bagno e la cucina, e la scala da cui si saliva al secondo piano”, spiega percorrendo con l’indice le fondamenta della casa nel cui spazio, tra il fango, ora cresce l’erba e qualche pianta di zucca e girasole. “La sera quando tornavo dal lavoro mi fermavo nel terrazzo al secondo piano a fumare una sigaretta con mia moglie. Andavo a comprarle nel negozio qui vicino, all’angolo della strada”. Dove ora sorge un cumulo di mobili, specchi, libri e auto. Qualcuno ha appoggiato una cassetta con dentro disposte ordinatamente borse, portafogli e zaini vuoti, e accanto una statua arrugginita della divinità Ebisu, protettrice dei pescatori.

GUARDA LA FOTOGALLERY

Teruo parla con l’accento tipico del nord, ha appena 66 anni, ma mostra i segni di un invecchiamento improvviso. Dall’11 marzo, giorno del disastro, è dimagrito più di dodici chili. La sua casa si trovava ai piedi di una collina a poche centinaia di metri dal porto di Otsuchi, una città sulla costa pacifica di oltre 15mila abitanti nella prefettura di Iwate, nel nordest del Giappone. Quando arrivò la scossa di terremoto Teruo stava lavorando come muratore in un cantiere nella vicina città di Kamaishi. Temendo l’arrivo dello tsunami, si affrettò a salire sul camioncino per raggiungere Otsuchi. “La radio annunciava un’onda di tre metri, ma dopo poche decine di minuti, appena ho superato il tunnel che collega le due città mi sono trovato di fronte all’inferno”. Otsuchi è stata inghiottita da un’onda di dieci metri che si è ripetutamente riversata dal mare nell’entroterra, superando le barricate del porto, la diga, risalendo i due fiumi Otsuchi e Kotsuchi, e spazzando via ogni cosa. Dopo l’acqua è arrivato il fuoco. I gas fuoriusciti dai serbatoi hanno incendiato le case, facendole galleggiare sull’acqua come lanterne infuocate. I morti registrati finora sono quasi 800, più di 650 i dispersi. Tra questi ultimi, c’è anche la famiglia di Teruo, che da marzo aspetta il ritorno della moglie e dei due figli. “Continuo a sperare e cercare senza tregua”. Ogni giorno controlla le liste dei dispersi e dei morti, sale al centro di raccolta fotografie in una ex scuola superiore, gestito da organizzazioni di volontari, per cercare un ricordo dei propri cari. Migliaia di foto e album vengono puliti e catalogati in base all’occasione che rappresentano: foto di classe, feste con gli amici, feste estive (omatsuri), viaggi, matrimoni o funerali. I sopravvissuti che hanno perso tutto cercano qui frammenti per ricostruire il proprio passato.

NUOVE CASE TRA LE MACERIE

La distesa di macerie che si vede appena ci si alza dal porto rende a colpo d’occhio la portata del disastro. Le poche centinaia di metri che separano le colline dal mare sono una distesa di vuoto interrotta da ammassi di rottami e di case. “Mi accorgo solo adesso di quanto il mare fosse vicino”, osserva Teruo. Camion, furgoncini e macchine private attraversano le strade ripulite che si snodano tra le rovine della città per caricare materiale. Il ministero dell’Ambiente ha calcolato che la sola prefettura di Iwate ha prodotto 4,5 milioni di tonnellate di macerie che devono essere analizzate perché non contengano radioattività. Saranno poi portate dai punti di primo smaltimento ai centri delle prefetture di tutto il paese per essere riciclate, incenerite, frantumate o interrate. “Qui a Otsuchi siamo quasi in duecento persone che lavorano per rimuovere le macerie”, spiega un operaio dell’azienda di costruzioni Matsumura Kensetsu. “Con noi collaborano trecento abitanti del posto. Ogni giorno demolisco case e raccolgo materiale da terra. Capita ancora di trovare cadaveri stesi supini ad appena 30, 40 centimetri dalla superficie”.

Su un’altura poco distante dal mare sorge la scuola elementare del quartiere di Ando, riadattata a rifugio d’emergenza dal giorno dello tsunami. In attesa di nuova sistemazione, Teruo trascorre qui la notte assieme ad altre trenta persone, soprattutto anziani. Nei tre piani dell’edificio sono stati organizzati dormitori, aree ricreative con piccole sale lettura e computer. Ogni giorno la prefettura distribuisce i pasti e assieme alle forze di Autodifesa portano altri beni come pentole, sapone e vestiti. Nel frattempo gli enti locali stanno provvedendo a costruire unità abitative temporanee, fornite dei servizi essenziali e completamente arredate. Tuttavia, la mancanza di terra abitabile lungo le coste ha costretto a portare le nuove case in radure isolate a qualche chilometro dal mare, circondate dalle montagne e spesso lontane dai servizi indispenabili. Per le vittime dello tsunami l’affitto è gratis per due anni, ma non hanno più diritto al rifornimento di cibi e altri beni, e devono pagare per l’erogazione di acqua e gas. “Non credo che due anni basteranno per ricostruire la città”, dice Kei Koshida, una signora di 70 anni che si è trasferita da poco nella nuova casa. “Per ora vivo con il piccolo assegno di sussistenza e la pensione di mio marito; l’hanno trovato morto la settimana scorsa” dice stringendo l’orologio del marito, ancora funzionante. Ma bisogna ripensare a come ripartire dopo”.

Come la signora Koshida in molti sono preoccupati per quello che succederà alla fine dei due anni. Otsuchi viveva principalmente grazie alla pesca e al turismo. Ora nel porto rimangono solo le carcasse delle imbarcazioni. Altre sono ancora arenate a terra o tra i resti di qualche casa. Dei magazzini frigoriferi lungo il molo si riconosce la struttura, sale un fetore di pesce e di marcio.

“Dobbiamo ripartire da zero, le imbarcazioni sono andate distrutte”, spiega Michio Koishi, responsabile di un gruppo di trenta pescatori a Otsuchi. Nei giorni successivi allo tsunami, è stato tra i primi a correre alla ricerca dei sopravvissuti. Ma rovistando a mani nude tra le macerie si è ammalato di setticemia ed è ancora convalescente. “L’associazione locale dei pescatori sta riparando tre navi, che potranno essere usate in condivisione per andare a pescare. Per fare arrivare nuove barche serve molto tempo e denaro, circa 150man yen per un peschereccio. Dobbiamo prepararci almeno per non perdere la pesca d’autunno”. Ma senza l’aiuto e di Koishi, non ancora ristabilito, e di altri colleghi che mancano da marzo, i pescatori di Otsuchi hanno poca forza per ottenere aiuti.

Lo tsunami non ha decapitato solo i vertici dell’associazione di pescatori. Il 19 marzo è stato ritrovato il cadavere del sindaco Koki Kato rimasto intrappolato nell’edificio del Comune assieme ad altri colleghi il giorno dello tsunami. Poco tempo prima aveva emanato un’ordinanza per dare vita a un centro di comando in risposta alle calamità naturali, da mettere poco distante dal mare. Ai cittadini di Otsuchi non resta che aspettare il 28 agosto, quando sono previste le elezioni del nuovo sindaco e devono scegliere tra i tre candidati che si sono presentati finora. Fino a quel momento non è stato fissato alcun piano per l’assegnazione delle terre della città e non può iniziare la ricostruzione.

Ma tra chi è rimasto a Otscuhi qualcuno non aspetta per ripartire. La sera del 24 luglio ai piedi del santuario Kozuchi è stata inaugurato l’Izakayadon, un banchetto con tavolini e qualche ombrellone per servire bevande e semplici pasti. “L’onda si è fermata proprio in questo punto”, spiega il proprietario Tomohiro Akizaki. “Abbiamo preso in prestito questo terreno, è la prima attività che nasce dopo l’11 marzo. Vogliamo trasformare questo posto nel nuovo punto di ritrovo della città, un punto zero”. Le lanterne dell’Izakayadon illuminano il terreno pieno di ciottoli, detriti; si scorge qualche bambola, scarpe e dvd ancora intatti. Tutto attorno il vuoto e il silenzio la fanno sembrare un’oasi nel deserto di macerie. “Ne costruiremo altri di simili, il prossimo è un bancarella per vendere utensili per la casa”, aggiunge Teruo, che ha dato una mano ai volontari per costruire l’Izakayadon. Quando arrivano altri amici dai rifugi e case vicine, la conversazione si sposta per un attimo su parenti e conoscenti ancora dispersi o quelli ritrovati morti. Prima di andarsene qualcuno si scambia gli indirizzi delle nuove abitazioni. “Mi manca la vista del mare, mi sento in prigione”, dice Masaru Miura, un pescatore che ora vive nell’entroterra di Otsuchi. “Spero di riavere presto la mia barca e tornare a vivere lungo il porto. Non ho paura dell’acqua, ma del vento”.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Irene, turisti delusi
“Alla fine solo un acquazzone”

next
Articolo Successivo

Libia, la guerra delle magliette da calcio

next