La crisi dell’euro – e dell’Italia – non è mai stata così evidente come in queste ore: il membro tedesco dell’esecutivo della Banca centrale europea, Juergen Stark, ha annunciato le sue dimissioni quando chiuderanno i mercati oggi pomeriggio. Appena  la Reuters lo scrive, i mercati iniziano a crollare. E la ragione è evidente: la causa delle dimissioni di Stark sarebbe la scelta della Bce, confermata nella riunione di giovedì, di proseguire il riacquisto dei titoli di debito dei Paesi in crisi di fiducia, cioè soprattutto Spagna e Italia (nelle ultime settimane il programma di sostegno ha spinto la Bce a ricomprare dagli investitori oltre 50 miliardi di euro). Per la Bce comprare debito degli Stati è un tradimento della sua missione originaria, cioè il controllo dell’inflazione e la difesa del sistema dei pagamenti (cioè evitare che falliscano banche troppo importanti). Ma i ritardi nella creazione di strumenti anti-crisi europei, come il Fondo salva Stati (Efsf), hanno messo la Bce di fronte all’aut aut: o si salvano i paesi, caricando sul bilancio i titoli di debito che nessuno vuole più, oppure si arriva alla bancarotta di sistemi troppo grandi per fallire senza conseguenze, come appunto l’Italia.

Per i tedeschi, che hanno fornito alla Bce la cultura di politica monetaria, con l’istituto di Francoforte modellato sulla Bundesbank, questi mesi sono di sofferenza: l’ossessione del ritorno dell’inflazione modello-Weimar, per Berlino, è più importante di qualunque altro rischio possa correre l’Europa. E salvare gli Stati significa immettere nel sistema una dose tale di liquidità che, prima o poi, può sollevarsi un’ondata di inflazione destabilizzante. Ma adesso ci sono problemi più urgenti, come evitare il collasso della moneta unica e una Grande Depressione europea.

La Bce di Jean-Claude Trichet, pur mostrando notevoli rigidità, alla fine si è (più o meno) adattata alle necessità del momento. I tedeschi no: la Germania è rimasta priva di un candidato per la presidenza anche perché Axel Weber, il favoritissimo governatore della Bundesbank, non aveva la voglia e la forza per gestire la Bce nel modo contrario a tutti i suoi principi. E per non essere coinvolto nello snaturamento della politica monetaria di Francoforte si è fatto da parte nella corsa per la presidenza e ha annunciato che lascerà la Bundesbank. Lasciando spazio a Mario Draghi. Ora il cancelliere Angela Merkel si trova di fronte ad un analogo problema politico e diplomatico: il rappresentante tedesco della Bce lascia, e la politica monetaria su cui Berlino ha sempre avuto influenza e potere di veto è all’improvviso meno tedesca. Resta da capire se le dimissioni di Stark sono un atto personale, di dissenso rispetto alla scelta di Berlino di avallare la prosecuzione del sostegno ai debiti dei Paesi periferici, o sia il modo della Merkel di dimostrare che c’è un limite a tutto. E che il governo tedesco si piega alla necessità ma non vuole prendersene la responsabilità di fronte agli elettori.

E l’Italia? Ora per noi sono guai. Per due ragioni: il cataclisma politico delle dimissioni di Stark scuote la fragile tregua di cui abbiamo beneficiato dopo l’approvazione della manovra al Senato, segna l’inizio di una fase di totale incertezza e complica la transizione da Trichet a Draghi, il quale si troverà una Bce da ricompattare. E rende più difficile la gestione del programma di sostegno al debito pubblico: se la Bce viene percepita come meno unita e meno credibile, i suoi interventi avranno meno effetto. E quindi lo spread – cioè la misura di quanto il debito italiano è più rischioso di quello tedesco – ricomincerà a correre, dopo la notizia delle dimissioni è schizzato a quasi 370 punti base. La tenuta delle nostre finanze è di nuovo un’incognita. E quello che abbiamo visto finora – a cominciare dalla manvora da 60 miliardi – rischia di essere solo l’antipasto.

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