Il tema dell’uscita di uno o più Paesi dall’euro non è più soltanto l’oggetto di dibattiti di fantapolitica. Negli ultimi dieci giorni tre ricerche prodotte da altrettante banche, Citigroup, Ubs e Natixis, hanno infatti deciso di occuparsi della questione. Ecco i principali risultati.
1. L’uscita dall’euro (volontaria o forzata) di un Paese in difficoltà non è prevista dai trattati, che al contrario considerano “irrevocabile” l’adozione della moneta unica. Secondo alcuni giuristi questa irrevocabilità invaliderebbe la stessa possibilità, prevista invece dall’art. 50 del Trattato di Lisbona, che uno Stato membro volontariamente scelga di uscire dall’Unione Europea, perché questo comporterebbe l’uscita dalla moneta unica. Sarebbe insomma necessaria una modifica dei Trattati, o quantomeno una fase negoziale piuttosto lunga.
2. Uscita dall’euro significa ritorno a una moneta nazionale. A quel punto l’intero debito sovrano denominato in euro si trasformerebbe in un debito in valuta estera. Andrebbe quindi per prima cosa convertito alla pari in valuta nazionale, come del resto tutti i depositi bancari. Subito dopo, la valuta andrebbe svalutata rispetto all’euro. (E’ quello che ha fatto l’Argentina pochi anni fa). Per quanto riguarda il debito, la conversione forzosa in una valuta più debole di quella in cui il debito è stato contratto equivale a un default. Per quanto riguarda i depositi, probabilmente le banche dovrebbero essere chiuse per qualche tempo (come avvenuto negli Stati Uniti negli anni Trenta) per impedirne la fuga. Ma tutto questo potrebbe essere vanificato dal fatto che difficilmente il processo sarebbe istantaneo, e quindi depositanti e investitori avrebbero il tempo di prelevare i depositi e di vendere i titoli del debito pubblico in loro possesso: con il risultato di far crollare il sistema finanziario e mandare in default il Paese già prima dell’uscita dall’euro.
3. Si può ipotizzare una svalutazione in un range tra il 30% e il 60% rispetto all’euro. Questo aiuterebbe le esportazioni (pur tenendo conto dell’aumento del prezzo di importazione di energia e di altri beni intermedi, che impatterebbe sul prezzo dei beni finali esportati). Ma è lecito pensare a ritorsioni da parte dei Paesi interessati facenti ancora parte della moneta unica. Non si può escludere neppure l’imposizione di dazi, visto che con l’uscita dall’Unione il Paese “secessionista” non sarebbe più legato da trattati commerciali con gli altri ex-partner europei. Questo potrebbe ridurre i vantaggi da svalutazione competitiva.
4. In caso di svalutazione ad es. del 60%, dopo la conversione forzosa il valore effettivo dei depositi bancari risulterebbe ridotto in misura equivalente. In questo modo le banche recupererebbero sul lato dei depositi almeno parte di quanto perso come investitori nei titoli pubblici svalorizzati, e il sistema bancario non collasserebbe.
5. Il costo di provvista dei capitali, sia per lo Stato sia per imprese finanziarie e non, crescerebbe subito in misura significativa (Ubs stima del 7%). Per un certo periodo, il flusso di capitali potrebbe interrompersi del tutto.
6. In considerazione di tutto questo, Ubs stima in 9.500-11.500 euro pro capite il costo immediato dell’uscita dall’euro. A questi costi andrebbero aggiunti ulteriori 3-4.000 euro per gli anni successivi.
7. Vanno poi aggiunti i costi politici dell’operazione. Ad esempio, la possibile secessione di parti del Paese interessato. O gli effetti a catena su altri Paesi in difficoltà, che a quel punto patirebbero una fuga preventiva da depositi e investimenti e sarebbero quindi incentivati o addirittura costretti a seguire la stessa strada.
Come si vede, l’abbandono della moneta unica non è una passeggiata. Dei tre report che trattano l’argomento, due (Ubs e Citigroup) ritengono che uscire dall’euro sia controproducente. Il terzo (Natixis), pur non sottacendone le implicazioni negative (tra cui un’immediata recessione), attribuisce in prospettiva maggiore importanza all’effetto della svalutazione per il rilancio dell’export e il superamento del deficit estero del Paese interessato. In ogni caso, non vi è dubbio che la strada di un’uscita dall’euro sarebbe lunga, difficile, ed economicamente molto dolorosa. Sarebbe quindi “altamente indesiderabile”, come ritiene Willem Buiter di Citigroup? In astratto è senz’altro così. Dal punto di vista pratico però le cose potrebbero stare in modo diverso.
Se un giorno ad esempio un Paese si trovasse in profonda recessione, già prossimo al default a causa di tassi sul debito (pubblico e bancario) insostenibili e privo di vie d’uscita, potrebbe infatti considerare il ritorno alla sovranità monetaria come un’extrema ratio, tanto disperata quanto necessaria. Un po’ come la vecchiaia per Lawrence Olivier: una gran brutta cosa, ma sempre migliore delle alternative. L’evidente incapacità dell’establishment europeo di affrontare seriamente il problema del debito, di cui si è avuta l’ultima clamorosa dimostrazione venerdì scorso, sta avvicinando quel giorno. Per la Grecia e non solo.
Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2011