Ha vissuto quattro ore di più. Doveva morire, per iniezione letale, alle sette di sera. Il suo appello alla Corte Suprema degli Stati Uniti, perché bloccasse l’esecuzione, l’ha fatto arrivare alle 11 di sera. I nove giudici della Corte hanno ricevuto la sua richiesta, e l’hanno respinta. E’ stato solo allora che Troy Davis è entrato nella camera della morte della prigione di Jackson, Georgia. L’hanno legato al lettino, gli hanno praticato l’iniezione. Otto minuti dopo è stato dichiarato morto.
Sono state ore convulse, fuori della prigione di Jackson e in tutti gli Stati Uniti. Centinaia di persone hanno continuato la loro veglia, sul piazzale antistante il carcere. Erano soprattutto afro-americani, come Davis. Levavano cartelli di protesta, urlavano slogan come “Risparmiate la vita di Troy”, “Basta al linciaggio legale”. Accanto a loro, divisi da un cordone di poliziotti, c’erano i sostenitori della pena capitale. Tra loro, prima di entrare in carcere ad assistere all’esecuzione, è passata la vedova del poliziotto che Troy Davis, 22 anni fa, avrebbe secondo l’accusa ucciso. Ha detto: “Siamo noi le vittime, non Davis. Abbiamo delle leggi, in questo Paese. Non uccidiamo Davis semplicemente perché vogliamo”.
I legali del condannato hanno fatto di tutto, prima dell’esecuzione, per salvargli la vita. Una richiesta di sospensione dell’esecuzione è stata inviata alla Corte Suprema della Georgia. Rifiutata. Una proposta di sottoporre Davis alla macchina della verità è arrivata al Georgia Board of Pardons and Paroles. Anche questa, rifiutata. I gruppi sostenitori di Davis hanno chiesto, informalmente, l’intervento del Ministero della Giustizia, e persino di Barack Obama, perché risparmiassero Davis sulla base dei “pregiudizi razziali” che hanno condotto alla sua condanna. Ma Obama, e il segretario alla Giustizia, Eric Holder, non hanno risposto. Quando anche la Corte Suprema di Washington, la massima istanza giuridica degli Stati Uniti, ha detto no, il destino di Troy Davis era segnato.
La confusione e la frenesia delle ultime ore concludono una vicenda divenuta negli anni un vero caso internazionale. Molte organizzazioni abolizioniste, a cominciare da Amnesty International, hanno fatto della storia di Troy Davis una delle loro bandiere, per dimostrare pecche e incongruenze del sistema giudiziario statunitense. Soprattutto, di quello che porta un uomo a essere condannato a morte. In effetti, il caso di Davis mostra più di un’incongruenza. Questo afro-americano, oggi 42enne, fu arrestato e condannato a morte per l’omicidio di Mark MacPhail, un agente privato della sicurezza, ucciso a Savannah nel 1989. MacPhail intervenne una notte, davanti a un Burger King, a difesa di un homeless che veniva selvaggiamente picchiato da un gruppo di ragazzi. L’agente venne colpito con due pallottole di una calibro 38, al cuore e in piena faccia. Morì immediatamente. Una serie di testimoni identificarono in Troy Davis l’autore dell’assassinio. E le pallottole ricollegarono la calibro 38 a un’arma precedentemente usata da Davis.
L’arma dell’omicidio non fu però mai trovata. La perizia degli agenti balistici venne più tardi messa in discussione. Sette dei nove testimoni chiave, che in un primo tempo avevano giurato sulla colpevolezza di Davis, ritrattarono le loro accuse. Lentamente, emersero testimonianze e accuse sulle pressioni esercitate dalla polizia per incastrare Davis. Il quadro probatorio finì per apparire così debole che un milione di persone firmarono la petizione per salvare Troy Davis dall’inizione letale (tra queste, l’ex-presidente USA, Jimmy Carter, papa Benedetto XVI, un’ex direttore dell’FBI). “Quando si condanna a morte un individuo, bisogna essere moralmente certi di quello che si fa. E in questo caso, non esiste l’assoluta certezza morale della colpevolezza di Davis”, ha detto Larry Thompson, vice-ministro della giustizia di George W. Bush.
La mobilitazione, nazionale e internazionale, non è però servita. Davis è stato messo a morte dallo stato della Georgia, e molti di quelli che in questi anni si sono battuti per la sua liberazione lanciano ora accuse esplicite di razzismo. “Siamo tornati a prima del Civil Rights Act del 1964. Siamo tornati a una nuova era di segregazione. I neri di questo Stato conoscono molto bene la sensazione”, ha detto il reverendo Raphael Warnock, che oggi dirige la chiesa dove servì Martin Luther King. Poco si sa delle ultime ore del condannato. Secondo alcune testimonianze, avrebbe rifiutato l’ultimo pasto offerto dalla prigione. Una funzionaria di Amnesty International, che l’ha visitato martedì scorso, lo descrive “di buon’umore, deciso a combattere fino all’ultimo respiro”. “La battaglia per la giustizia non finisce con me. La battaglia è per tutti quelli che verranno dopo di me”, ha scritto Troy Davis in una lettera, poco prima di entrare nella camera della morte.