“Quando dice che quest’anno non sono stati fatti tagli alla Cultura, il ministro Galan non dice tutta la verità, ma solo quella che fa comodo al governo”. La denuncia arriva dal cuore del mondo della cultura nazionale. Si sono conclusi ieri all’Auditorium di Roma gli Stati generali indetti da Federculture. Il tema dei tagli al settore per effetto della manovra ha catalizzato l’attenzione di migliaia di amministratori, che si sono fatti i conti in tasca per capire che cosa succede al mondo della produzione artistica e culturale dopo l’ennesima scure del governo. Perché è vero che l’esecutivo non ha ridotto i fondi statali, ma lo Stato investe in cultura solo 1,5 miliardi di euro, lo 0.20% del Pil, mentre i comuni italiani sei volte di più (senza contare regioni e province). “Tagliarci i bilanci significa dare un colpo mortale all’offerta culturale del nostro Paese e spogliarlo. Dopo la fuga dei cervelli, assisteremo a quella degli artisti. Presto per loro in Italia non ci sarà più lavoro”: sono le parole di Roberto Grossi, presidente di Federculture, che ha organizzato l’evento al quale hanno preso parte migliaia di amministratori locali. I numeri sono pesantissimi. Secondo Federculture, con i tagli agli enti locali nel 2012 i comuni dovranno ridurre la spesa per la cultura di 7,2 miliardi l’anno, che equivalgono al 30% della spesa consolidata in beni e servizi ricreativi (24 miliardi). “In altre parole, bruciamo buona parte della manovra comprimendo un settore che crea ricchezza”, dice Grosso.
Lo “scippo”
Tagli che sono solo gli ultimi di una lunga serie. Per molti, la mazzata finale. Tra il 2005 e il 2009 il settore ha perso il 15% delle risorse e negli ultimi dieci lo Stato ha ridotto il proprio impegno nella cultura del 32,5%. Nel frattempo, paradossalmente, il turismo culturale è tornato a crescere, segnando un aumento del 5,8% nel 2010 e del 53,7% in dieci anni. Ecco perché molti assessori comunali venuti da tutta Italia hanno parlato apertamente di “scippo culturale alla nazione da parte del governo. Anche perché in quel miliardo e mezzo statale sono ricomprese le attività di tutela e restauro del patrimonio, gli archivi e le biblioteche statali. Per la promozione artistica non c’è neppure un centesimo. Se non ci fossero i comuni con il loro impegno la cultura sarebbe morta”.
Dal palco, molti i riferimenti ai due leitmotiv che hanno indotto il governo Berlusconi a ingaggiare una politica di riduzioni anche sulla cultura. “Non si vive di sola cultura” è stato il ritornello di questi ultimi due anni e mezzo. Gli enti locali hanno snocciolato cifre che dicono il contrario: la produzione di beni e servizi culturali, è stato fatto notare da più parti, corrisponde al 2,6% del Pil ed è una voce importante dell’attrazione turistica, che vale 50 miliardi di euro. Ancor più semplice: se la cultura non è il pane, la cultura sfama almeno un milione e mezzo di persone, più tutti gli addetti “indiretti”.
La risposta al ministro Galan
Una risposta forte è poi arrivata alle esternazioni recenti del ministro Galan, che in più occasioni ha potuto vantare che la manovra non ha portato a nuovi tagli alla cultura. “E’ un bluff”, risponde secco l’assessore alla Cultura di Genova, Andrea Ranieri, forte della criticità ormai raggiunta nel capoluogo ligure. “In Italia sono pochissime le strutture finanziate e gestite direttamente dallo Stato, come la Pinacoteca di Brera o gli Uffizi. Perché il resto del patrimonio grava direttamente sui comuni. Lasciare inalterata la spesa statale per i Fus, ma tagliare i bilancio dei comuni significa lanciare il sasso e nascondere la mano. L’effetto è lo stesso: mettere i comuni nelle condizioni non poter mantenere l’offerta culturale dell’anno prima. Prendiamo Genova: tutti i musei d’arte sono civici, l’opera lirica pure. Se il Comune non ha soldi, quelle luci si spengono ed è un peccato, perché l’offerta di Genova è eccellente, noi abbiamo il record assoluto nella frequenza dei teatri con 640mila fruitori l’anno, che significa il rapporto più alto d’Italia tra cittadini/spettatori. Abbiamo appena restaurato il lirico Carlo Felice, salvandolo da un fallimento ormai certo e con la generosità delle maestranze che si sono decurtate lo stipendio del 80%. Lo abbiamo fatto per niente? Quei privati che hanno accettato di darci una mano continueranno a farlo o molleranno tutto?”. Perché un altro problema dei tagli alla cultura è che si riverberano anche sul settore delle aziende private e delle sponsorizzazioni, che sono precipitate vertiginosamente del 30%. “E’ chiaro che se i comuni non possono garantire alcuna progettualità sull’offerta culturale e sull’esercizio delle strutture, nessun’azienda culturale si assume il rischio di investire risorse”, spiega ancora Grosso. “Poi i cosiddetti risparmi sono fatti un tanto al chilo. Ad esempio, il decreto n. 122 della manovra di luglio impone ai comuni di non spendere in mostre oltre il 20% di quanto hanno speso nel 2009. Vi pare un criterio selettivo e logico?”.
Ma c’è anche un altro effetto indiretto della manovra: “Non incide soltanto sulle attività culturali in senso stretto – spiega ancora Grosso – ma incide direttamente sull’attrazione complessiva delle città. L’intero sistema produttivo culturale di comuni grandi e piccoli grazie alla manovra subirà contraccolpi pesantissimi. Si spengono le luci di cinema, teatri, biblioteche e questo renderà le nostra città meno attraenti, le taglierà fuori dai circuiti culturali e finirà per costringere i nostri talenti ad emigrare per cercare altrove quelle strutture e quelle occasioni di lavoro che in Italia sono sempre più negate. E l’Italia sarà sempre più buia, triste e attaccata alla tv”.
Le conseguenze in cifre
Le conseguenze del generale impoverimento sono già tradotte in numero. Nell’ultimo anno, in una generale ripresa degli arrivi dall’estero in Italia (+1,6% nel 2010), i dati di crescita più significativi si sono registrati nelle destinazioni culturali. L’occupazione delle camere d’albergo nelle città d’arte ha registrato un aumento del 3,3%, mentre nelle destinazioni balneari si è avuto un calo del 5,1%; gli introiti derivati dalla spesa dei turisti nelle centri d’interesse culturale-artistico sono stati, sempre nel 2010, di 8,6 miliardi di euro, dato in crescita rispetto all’anno precedente del 4%. Lo stesso dato è in diminuzione sia per le vacanze al mare che per quelle in montagna, rispettivamente dell’1,5% e del 6,7%. I ‘turisti culturali’ sono, inoltre, quelli che spendono di più: mediamente 109 euro al giorno, contro i 68 euro di un turista balneare. “Ma il nostro sistema turistico – si legge in una nota di Federculture – rivela anche molte criticità. Dopo essere stato a lungo il paese leader, negli ultimi decenni l’Italia è scesa nelle classifiche internazionali del turismo. Fino ancora a tutti gli anni ’70 del secolo scorso eravamo il Paese più visitato al mondo. Oggi siamo la quinta nazione per arrivi internazionali dopo Francia, Stati Uniti, Cina e Spagna. Ma secondo il World Economic Forum ci collochiamo al 27° posto nella classifica mondiale stilata in base alla competitività complessiva dell’offerta e dell’industria turistica”.
Le proposte
Nella fase finale degli Stati Generali della Cultura sono state presentate alcune proposte da sottoporre al governo per salvare il salvabile. Si tratta della riforma della fiscalità per agevolare gli investimenti dei privati nella cultura; della riduzione dell’Iva per gli interventi di restauro del patrimonio per allinearci a quanto avviene in molti Paesi europei che prevedono aliquote agevolate per il settore; dell’estensione della destinazione delle risorse derivanti dall’8 per mille anche alla musica e al teatro, oltre che alla conservazione del patrimonio; della modifica dei meccanismi di selezione e di rendicontazione degli interventi di Arcus e innalzamento dal 3% al 5% della quota del fondo infrastrutture gestito dalla Spa del Ministero e destinata a interventi nei beni culturali; dell’approvazione della legge di riforma del settore dello spettacolo bloccata da anni in Parlamento; dell’introduzione anche per la cultura di costi standard al fine di promuovere l’efficienza della spesa; di assegnare, infine, priorità agli interventi che favoriscono la produzione e la gestione del patrimonio e delle infrastrutture già esistenti prima di programmare nuove opere.
Tutte queste proposte – ha sottolineato nell’intervento conclusivo il presidente di Federculture – devono rientrare in una programmazione pluriennale delle politiche e delle risorse che garantisca agli amministratori certezza finanziaria a lungo termine, indispensabile anche nella prospettiva di un maggiore coinvolgimento dei privati in progetti produttivi di sviluppo e di ampio respiro. Solo in tal modo si può realizzare un radicale miglioramento della produzione culturale e liberare le potenzialità di un settore, che può diventare decisivo per la ripresa”.