E adesso anche Moody’s ha perso la pazienza. Dopo la proroga alla scadenza del trimestre di osservazione, anche la più cauta delle agenzie di rating ha deciso di allinearsi in pieno alla posizione assunta a settembre dalla collega Standard & Poor’s declassando di ben tre livelli (notches) il giudizio sull’Italia e i suoi titoli di Stato e giudicando “negativo”, come se non bastasse, l’outlook economico del futuro prossimo. La valutazione delle nostre obbligazioni è ora marchiata in rosso da un poco confortante A2. Il che, nella scala utilizzata, equivale esattamente alla A (singola) attribuitaci da S&P’s nella seconda metà di settembre. L’Italia, in altre parole, si trova ora ai margini della zona retrocessione, con la temuta serie B – la categoria, cioè, in cui il rischio passa da “basso” a “moderato” – distante appena due gradini più sotto (scarica il pdf).
Per capire quanto pesante sia una simile decisione è sufficiente chiamare in causa due aspetti chiave. Il primo è dato dal contrasto tra il downgrade di ieri e la recente “benevolenza” dell’agenzia, un fattore di ulteriore preoccupazione. Nella prima metà di settembre, S&P’s non ci aveva ancora declassato, eppure il suo giudizio valeva già due notches in meno di quello espresso fino a ieri da Moody’s. Al successivo, ulteriore, downgrade, la stessa Moody’s aveva comunque confermato la scelta, un po’ a sorpresa, di allungare ancora il periodo di osservazione rimarcando così un atteggiamento particolarmente cauto. Con la decisione di ieri, quindi, anche gli analisti che si erano dimostrati più indulgenti hanno confermato di aver perso la loro fiducia extra. Decisamente un pessimo segnale.
Il secondo elemento di preoccupazione viene invece dal confronto sempre meno lusinghiero con gli altri Paesi dell’Unione. L’A2 incassato dall’Italia è infatti, ad oggi, uno dei peggiori giudizi in circolazione in quel di eurolandia. Nella classifica dei 17 membri, ci piazziamo ormai al quintultimo posto, raggiunti niente meno che da Malta e superati anche da Estonia e Slovacchia. Peggio dell’Italia fanno solo in quattro: la new entry della crisi Cipro, l’ancora assai instabile Irlanda, il sempre più comatoso Portogallo e ovviamente la Grecia, ammesso che a quest’ultima abbia ancora senso attribuire un rating. Non stupisce, è chiaro, che i sei primi della classe – Austria, Finlandia, Olanda, Lussemburgo, Francia e Germania – siano quindi sempre più lontani. Quello che preoccupa, piuttosto, è che ad allontanarsi progressivamente sia adesso anche la Spagna, che fino a qualche mese fa era giudicata dalle agenzie, e va da sé dal mercato, decisamente più rischiosa dell’Italia.
A determinare la decisione di ieri, hanno spiegato in una nota gli analisti di Moody’s, sono stati essenzialmente tre fattori. Il primo è la generale difficoltà di finanziamento sui mercati dei Paesi dell’area euro, il secondo è dato invece dalle scarse prospettive di crescita cui si aggiungono, terzo elemento, le debolezze del sistema politico. La vera novità si riscontra soprattutto nel secondo aspetto della questione. La difficoltà di crescita è per l’Italia un fenomeno più che consolidato, ma il problema, ora, è che la malattia si sta aggravando. Ieri, un’altra agenzia di rating, Fitch, ha rivisto pesantemente al ribasso le prospettive di espansione del Pil italiano ipotizzando un incremento pari ad appena lo 0,2% nel corso del 2012 e dello 0,6% nell’anno seguente. Il guaio è che fino all’altro giorno la stessa Fitch pronosticava rispettivamente tassi di crescita all’1,0% per il prossimo anno e all’1,6 per quello successivo.
Una crescita ridotta, ovviamente, implicherebbe una diminuzione delle entrate per le casse dello Stato imponendo, di conseguenza, la necessità di nuovi tagli alla spesa. Ma in un momento di crisi di consenso a livello politico, evidenzia Moody’s, l’approvazione delle misure di austerity appare chiaramente ancora più difficile da ottenere. Un bel problema per un Paese chiamato a porre un freno al trend di crescita di un debito pubblico che viaggia ormai a quota 120% nel rapporto con il prodotto nazionale (contro il 104% registrato allo scoppio della crisi globale) e sul quale, inevitabilmente, peserà ancora il fattore deficit, visto che un peggioramento del rating corrisponde di fatto a un aumento degli interessi accordati sulle nuove emissioni obbligazionarie.