Con le cellule embrionali umane si può continuare a fare ricerca, ma d’ora in poi non si potrà più commercializzarne i risultati. E’ questo il senso della decisione della Corte di Giustizia Ue che vieta la brevettabilità di “un procedimento che, ricorrendo al prelievo di cellule staminali ricavate da un embrione umano nello stadio di blastocisti, comporta la distruzione dell’embrione”.
La confusione è lecita visto che la sentenza della Corte si presta a differenti interpretazioni. Ma soprattutto perché le sperimentazioni sulle staminali sono uno di quegli argomenti, come il fine vita e l’aborto, che da sempre dividono laici e cattolici. Nella loro sentenza, le toghe europee si avvalgono di una nozione di “embrione umano” molto ampia: allargata anche “all’ovulo umano non fecondato”. Questo perché la normativa europea (direttiva 98/44/CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche) non fornisce alcuna definizione precisa, come succede anche in Italia. L’unico punto saldo, è che “l’Ue ha inteso escludere qualsiasi possibilità di ottenere un brevetto quando il rispetto della dignità umana può esserne pregiudicato”. Insomma, sulla vita, o quasi vita, dell’uomo non si lucra.
Proprio “impedire la brevettabilità degli embrioni umani” aveva portato Greenpeace ad impugnare un brevetto depositato il 19 dicembre 1997 dal tedesco Oliver Brüstle relativo a “cellule progenitrici neurali isolate e depurate, ricavate da cellule staminali embrionali umane utilizzate per curare le malattie neurologiche” di fronte al Bundespatentgericht (il Tribunale federale in materia di brevetti in Germania). Vedendosi bloccare il brevetto, Brüstle si era rivolto alla Cassazione tedesca, che si è trovata quindi di fronte a dover prendere una decisione in base alla definizione di “embrione”. Non sapendo che pesci prendere, il giudice si è rivolto alla Corte di giustizia Ue in merito all’interpretazione della nozione di «embrione umano». Insomma, la patata bollente è passata è passata a Lussemburgo.
Sotto gli occhi di opinione pubblica internazionale, ambientalisti, ricercatori, medici e vescovi, la Corte ha subito chiarito, come si legge nella sentenza finale C-34/10, che “non è chiamata ad affrontare questioni di natura medica o etica, ma che deve limitarsi ad un’interpretazione giuridica delle pertinenti disposizioni della direttiva”. In parole povere, la chiave di lettura della sua sentenza consiste nel fatto che gli embrioni non possono essere utilizzati a fini commerciali. A questo proposito, secondo la Corte “il fatto di accordare a un’invenzione un brevetto implica il suo sfruttamento industriale e commerciale”. Quindi, “anche se lo scopo della ricerca scientifica è distinto dai fini commerciali, l’utilizzazione di embrioni umani non può essere scorporata dal brevetto”. Di conseguenza, la Corte conclude che “la ricerca scientifica che implichi l’utilizzazione di embrioni umani non può ottenere la protezione del diritto dei brevetti”. Insomma, niente brevetto a procedimenti che comportano la distruzione dell’embrione.
Questo vuol dire che la Corte vieta la ricerca sulle cellule staminali? Assolutamente no. Si potrebbe obiettare che senza brevetto una ricerca non genera alcun profitto, e quale compagnia farmaceutica finanzierebbe mai una ricerca senza la possibilità di guadagnarci sopra? La risposta viene da se, nessuna. L’ideale, come forse era nelle intenzioni di Greenpeace, sarebbe lasciare libero spazio alla ricerca pubblica, ma lo stato di salute delle casse degli stati nazionali non fa ben sperare. Proprio per evitare questo sono stati inventati brevetti. Tra i genetisti europei è già scattato l’allarme, soprattutto tra chi teme se in Europa non saranno più possibili questi brevetti, rimarranno solo quelli americani o cinesi, facendo scappare le aziende e creando così un danno ai pazienti, costretti a emigrare per avere cure.
Oltre quella medica, inevitabile anche la lettura etica della sentenza, con la Comece, la Commissione che riunisce gli episcopati della Comunità europea, che ha definito l’ha definita come “una pietra miliare nella protezione della vita umana nella legislazione europea”. Per gli instancabili difensori dell’embrione, come il ministro della Salute italiano Ferruccio Fazio, si tratta infatti di un passo in avanti verso l’acquisizione da parte dell’embrione umano dello statuto di “soggetto giuridico autonomo”, insomma l’equivalente di un essere umano. Ma a ben guardare la sentenza, la Corte non dice questo, dal momento che, si legge, “la Corte constata che spetta al giudice nazionale stabilire, in considerazione degli sviluppi della scienza, se le cellule staminali siano tali da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano e, di conseguenza, rientrino nella nozione di embrione umano”. Una definizione che sembra ancora piuttosto lontana.