Il cordone delle forze dell'ordine (foto di Elena Rosselli)

Reti tagliate e nessuno scontro tra manifestanti e forze dell’ordine. La tanto temuta manifestazione dei movimenti che si battono contro la realizzazione della linea ad alta velocità tra Torino e Lione non è stata il secondo tempo di quanto è accaduto sabato scorso a Roma.

Con buona pace del ministro dell’Interno Roberto Maroni che, nella sua informativa al Senato sugli incidenti nella Capitale, aveva detto che i black bloc avevano partecipato a dei presunti “campi di addestramento” in Val di Susa.

Eppure i numeri facevano presagire ben altro: quasi duemila rappresentanti delle forze dell’ordine a presidio della zona rossa attorno al cantiere, oltre 15mila persone, secondo i comitati, e un obiettivo dichiarato: cesoie alla mano, tagliare le reti dell’area dove dovrebbe essere scavato il tunnel esplorativo. Un’azione di disobbedienza civile, “per aprire spiragli di democrazia”, come dice il movimento, che poteva anche finire male. Ma anche su questo punto i No Tav erano stati chiari: “Se incontreremo la polizia, gireremo i tacchi e torneremo indietro”. Ma non ce n’è stato bisogno perché la rete a protezione del cantiere è stata sì tagliata, ma l’azione è stata puramente simbolica. Sì perché quella protezione è comparsa solo questa mattina in un punto in cui fino a ieri non c’era niente. E la polizia si è tenuta a debita distanza.

“Quando ci siamo resi conto che non avremmo potuto raggiungere il cantiere – spiega Alberto Perino, storico leader dei No Tav – abbiamo deciso di prendere i sentieri del bosco di Giaglione”. E così è stato. Alcune decine di manifestanti sono anche riuscite a raggiungere la Baita Clarea, simbolo della lotta della popolazione valsusina, che l’ordinanza del Prefetto di Torino aveva collocato nel mezzo della zona vietata.

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