Alzi la mano chi non è mai andato, da piccolino, a una gita scolastica d’istruzione in un museo, una fattoria, un caseificio, una fabbrica. Alla scoperta di arti e mestieri, anche di alta tecnologia e fama, ma sempre legati al territorio. Alzi la mano ora chi crede che sia una buona idea mandare dei bambini delle elementari a fare una gita scolastica d’istruzione in un negozio. Per essere più precisi: in un negozio di informatica che vende prodotti di una sola marca. Per essere più precisi ancora: al nuovo Apple Store di Bologna.
Qualche mano si è alzata, ma per dissentire, da alcuni genitori dubbiosi, che hanno lanciato un sasso nel web raccontando della visita programmata dalla scuola dei propri figli, di otto anni e di terza elementare. Una scuola nel quartiere Navile, prima periferia bolognese. Una delle scuole, perché non è l’unica, che ha raccolto l’invito della Apple, che così propaganda nei suoi siti: “Porta i tuoi studenti in gita all’Apple Store per un’esperienza di apprendimento indimenticabile”. Ovvero “creare album fotografici in iPhoto, montare video in iMovie, creare presentazioni in Keynote e persino comporre la loro musica in GarageBand”. Le gite si chiamano “Creazione”, e durano 90 minuti, oppure “Presentazione”, e durano un’ora. Già diffuse negli Stati Uniti, ora, con l’arrivo degli Apple Store, sono a disposizione anche in Italia.
“Boh, si vede che quel giorno c’è sciopero ai musei”, un genitore perplesso, e ironico, non trova spiegazioni migliori. Parlando con ilfattoquotidiano.it, spiega che le maestre sono brave, che immagina che i bambini si divertiranno, ma dice anche che quella che ha di fronte “sembra più una trovata commerciale che didattica, peraltro rivolta a dei bambini”. E trasversalmente agli stessi genitori, anche perché, casualmente, cadrà “poco prima del Natale”. Per i bambini dev’essere una sorpresa, i genitori sono invitati a non dire loro alcunché prima del gran giorno, poi dopo potranno partecipare e visionare le opere dei pargoli. Che, promette ancora l’Apple, riceveranno “ una maglietta in omaggio” e “persino degli inviti personalizzati da mandare via e-mail a genitori, insegnanti e amici”. In gergo si chiama marketing.
Il genitore non ci sta a fare troppa dietrologia: “La mia idea è che la maestra abbia visto come una bella occasione quella di portare i bimbi in quel tempio della tecnologia, senza (forse un po’ ingenuamente) pensare al fatto che dal punto di vista di un’azienda come la Apple i bimbi non sono solo alunni ma anche figli di clienti”. E ovviamente, dato che i bambini prima o poi crescono, prossimi potenziali clienti in un futuro non troppo lontano. Come il fanciullo della fiaba di Andersen, il padre risentito ha per primo puntato il dito, e così tutti hanno scoperto che il re è nudo e l’incantesimo si è rotto. Sotto il suo post nel gruppo di discussione la reazione degli altri genitori è diventata così: “Se e quando mi capiterà, mia figlia non ce la mando e vado pure a protestare dal preside”.
Che siano di genitori oppure solo di ex bambini che ricordano le proprie gite d’istruzione, i commenti sono anche meno concilianti del genitore perplesso. Vanno da “cos’è ‘sta cretinata?” a “io credo che sia una cosa molto grave, seriamente”. E se è vero che la pubblicità è già entrata da un pezzo nelle scuole, suggeriscono, almeno che sia esplicita e non mascherata da formazione, e neppure da gioco, e che serva a trovare risorse per attività veramente didattiche: “Se la Apple è così attenta alle nuove generazioni che regali agli istituti qualche tablet, e non pretenda di mandare i ragazzi in gita in uno store!”. La questione in realtà era già saltata fuori in alcuni blog qualche anno fa, quando la Apple lanciò per i suoi Store, che allora non erano diffusi in Italia, l’iniziativa dei field trip (negli Usa le gite d’istruzione si chiamano così). Con commenti dello stesso tenore: “Ma quale scuola può permettere un’iniziativa del genere?”.
Poco scalfiscono l’indignazione quelli che difendono Apple per la qualità dei prodotti, richiamati al vero oggetto della discussione: “Il topic è: deve la scuola pubblica prestarsi a queste marchette sulla pelle dei bambini?”. Ancora meno la scalfisce chi argomenta che forse la gita al negozio potrebbe essere utile per aumentare le conoscenze informatiche. A parte che si tratta di bambini di 8 anni, anche se così fosse “per par condicio, prima e oltre Windows, dovrebbero farti vedere Linux ed OSX, ma prima di tutto dovrebbero riprendere a fare scuola e lasciare Internet, Inglese ed altre cazzate al dopo aver imparato a parlare e scrivere in italiano e ad avere elementi per poter capire come gira questo pazzo mondo”. Cose che la scuola fa comunque, ma che forse davvero stanno perdendo importanza in un mondo che ci illude ormai fin da piccoli che sarà una neutra tecnologia a rendere agevoli le nostre vite. E se davvero esiste un vuoto formativo, sarebbe meglio non riempirlo col marketing.
di Valentina Avon