Chi l’avrebbe mai detto che davvero funziona così, nella diplomazia politico-economica del continente? Leggendo il testo della missiva Draghi-Trichet al governo italiano (5 agosto), si rimane un po’ sorpresi dallo stile asciutto, “americano”, utilizzato dai due uomini della Bce. Sembra un box di un testo di economia, “La crisi: 2011, le richieste della Bce all’Italia”.

Un caso da manuale, nel vero senso del termine: fin troppo. Se non siamo al “Bruxelles consensus”, dopo quello di Washington, poco ci manca, e poco li differenzia, nonostante la pessima performance del secondo negli anni Novanta. Tutto si basa sulla fiducia degli investitori, che prevede un gioco ricorsivo tra i mercati finanziari, che sulle analisi delle istituzioni internazionali fondano le loro decisioni di investimento, e le istituzioni internazionali stesse, pronte a giustificare qualsiasi avanzata sulla strada dell’agenda integrazionistica con la necessità di ristabilire la fiducia dei mercati stessi.

Il solito mantra delle riforme strutturali, ma anche il pareggio di bilancio in costituzione (la rivincita, semmai ce ne fosse bisogno, dell’ultraliberismo); misure per la crescita, ma condite da ciò che con tutta probabilità le toglierà respiro: privatizzazioni, concorrenza, politiche dell’offerta ed “efficienza del mercato del lavoro”: “C’è… l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”.

Risultato: auspicando la fine dell’orpello inutile della contrattazione collettiva, si procede (lettera di risposta del governo italiano) a: promuovere contratti di apprendistato, di rapporti a tempo parziale, naturalmente concedendo crediti d’imposta alle imprese; e a una riforma della legislazione del lavoro “funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell’impresa”, “anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato”.

Licenziamento per crisi, insomma. Davvero basta il box di un libro di testo di economia per riformare la legislazione sul lavoro nel senso auspicato dalla Bce? Davvero le istituzioni europee intendono procedere su questa strada per implementare la tristemente nota strategia di Lisbona, ormai così lontana, nel tempo e nelle aspettative che aveva suscitato? Non abbiamo imparato nulla dalla lettura del bellissimo saggio di Luciano Gallino, Finanzcapitalismo (Einaudi 2011), che ci ricorda come, ai tempi della crisi, e di una politica ormai felice di causare quegli stessi danni cui poi le si chiede di rimediare, il lavoro sia ormai l’ultima delle preoccupazioni delle imprese “irresponsabili” e completamente finanziarizzate del nuovo millennio?

Anche per questo vorremmo invitare tutti i lettori del Fatto Quotidiano a un convegno che terremo a Torino, nei prossimi due giorni, sul lavoro in prospettiva europea: convegno che vedrà la partecipazione, tra gli altri, dello stesso Gallino, nonché dei sociologi Alain Ehrenberg e Alessandro Casiccia, ma anche di Antonio Di Pietro e Guy Verhofstadt, presidente del gruppo Alde al Parlamento europeo. Per parlare di lavoro, e in particolare della filosofia e della cultura del lavoro, per riportare il tema al centro della scena. A Torino, presso il Torino Youth Centre di Via Pallavicino 35.

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