La madre l’ha rinnegato, e non da ora. Nella borgata della Guadagna, come scrive tale Antonio Chinnici su Facebook, dicono “che si può impiccare da solo, fa prima”. E gli ergastolani scarcerati per lui hanno solo una domanda: “Chi ti ha detto di fare il mio nome?”. Ora Vincenzo Scarantino ha paura e non vuole uscire dal carcere, dove deve restare altri due anni. La libertà per lui è diventata un incubo, così come lo è stata la detenzione degli anni di Pianosa, dal ‘ 92 al ‘ 94, quelli in cui è maturato il suo falso pentimento. Era bastata mezz’ora di interrogatorio al pm di Palermo Alfonso Sabella per cacciarlo via, dopo avere raccolto l’improbabile confessione di Enzino “serial killer” che staccava la testa delle sue vittime con un taglierino. Ma su via D’Amelio, le parole del falso pentito, rese inossidabili dalla ragion di Stato, hanno scavalcato le montagne della logica, trovando accoglienza in tre sentenze timbrate dalla Cassazione.
Calligrafie femminili e “metodi forti”
EPPURE le pressioni che sarebbero state utilizzate per strappare una confessione impossibile, trasformando un piccolo manovale di borgata nel teste chiave della strage, erano state denunciate subito dai familiari, terrorizzati dalla vendetta mafiosa. La madre di Scarantino, la moglie e le altre donne della famiglia accusarono i poliziotti di aver messo in piedi, con Enzino, un’autentica “fabbrica di pentiti”: parlarono di verbali studiati a memoria, di riscontri sul territorio ottenuti grazie alle indicazioni degli agenti, riferirono di annotazioni scritte dagli inquirenti, a margine degli interrogatori, per istruire il teste su quanto avrebbe dovuto riferire in aula. E al processo saltarono fuori tre fogli di verbale, con annotazioni a mano di una calligrafia “femminile”, con suggerimenti ed aggiustamenti delle sue dichiarazioni. Lezioni di pentimento e “metodi forti”. Per convincere Enzino a parlare in carcere gli avrebbero dato “cibo scarso e con i vermi”, così confidò alla moglie il falso pentito durante un colloquio, lo avrebbero minacciato “di iniettargli il virus dell’Aids”, e “di impiccarlo”. Gli avrebbero reso la vita un inferno: in cella, fece sapere Scarantino tramite i familiari, aveva “il divieto di lavarsi e di dormire”, e quando riusciva a chiudere gli occhi lo svegliavano con “secchi d’acqua gelida lanciati addosso”. Denunciò sevizie e minacce, ma anche anche promesse di denaro e libertà: “La Barbera mi disse che mi sarei fatto solo qualche mese di galera e che mi avrebbe dato duecento milioni”, rivelò il picciotto della Guadagna alla sua prima ritrattazione, nel ‘ 98, quando confessò di avere raccontato balle apprese da Radio Radicale, perchè lui non sapeva neanche “dov’era via D’Amelio”. Lette a distanza di diciott’anni, alla luce della nuova indagine, quelle denunce delle donne di casa Scarantino, come abbiamo scritto ne “L’Agenda nera della seconda Repubblica” (Chiarelettere), anticipano dall’esterno le accuse mosse oggi dai tre ex collaboratori (Scarantino, Candura e Valenti) contro i poliziotti che li avrebbero manovrati nelle varie località segrete, e che attualmente sono indagati come autori del depistaggio in un’inchiesta in cui, come scrivono i pm nisseni, non sono stati finora trovati “sufficienti elementi di riscontro”. È la moglie di Scarantino, Rosalia Basile, a denunciare per prima che, al telefono, il marito le racconta che i poliziotti gli suggeriscono le parole per riempire i verbali e che i pm lo assecondano, pur sapendo che le sue “sono tutte bugie”, per tenere in piedi l’inchiesta.
“Un orsacchiotto con le batterie”
LE ACCUSE della donna finiscono in una lettera indirizzata a Silvia Tortora, paladina del garantismo, e sui giornali attraverso le parole di Tiziana Maiolo, deputato di Forza Italia. Poi Rosalia Basile è persino ospite di Enzo Biagi, nella trasmissione televisiva “Il fatto”. L’altalena di rivelazioni e retromarce di Scarantino raggiunge il culmine il 15 settembre 1998, quando il pentito, in aula a Como, ritratta ufficialmente tutte le sue accuse. Dice di aver studiato gli organigrammi di Cosa nostra su un libro scritto dal collaboratore Tommaso Buscetta (volume che gli sarebbe stato consegnato dai poliziotti) per dimostrare ai pm una profonda conoscenza della mafia. “Sono stato usato come un orsacchiotto con le batterie – dice – costretto con le minacce a prendere in giro lo Stato, in galera ho mangiato anche i vermi, le guardie mi dicevano che mentre ero in carcere mia moglie andava a battere, e facevano allusioni al suicidio di Gioè”. In aula, alla fine, l’ex collaboratore scoppia in lacrime: “Sono quattro anni che volevo dire la verità”. Accusa: “Il pm Palma mi disse che era meglio se all’appello arrivavo come definitivo, così sarei stato più convincente”. E conclude: “Sono innocente. Se muoio, è per ordini superiori della Squadra mobile di Napoli o Palermo. Io non ho intenzione di ammazzarmi”. Tutto cominciò pochi mesi dopo la strage di via D’Amelio, in quella fine estate del ‘ 92, con Salvatore Candura, che si autoaccusò falsamente del furto della 126, chiamando in causa, come mandante, Scarantino. Interrogato lo scorso anno, Candura non ha saputo indicare neppure dov’era parcheggiata l’auto: “Un semplice sopralluogo, all’epoca dei fatti – scrivono oggi i pm nelle 1300 pagine della memoria – avrebbe potuto contribuire ad accertare che Salvatore Candura non poteva essere il ladro”. Ma quel sopralluogo non fu mai fatto.
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
da Il Fatto Quotidiano del 30 ottobre 2011