La trama è perfetta per un film hollywoodiano, di quelli in cui alla fine, il “cattivo” viene smascherato e adeguatamente punito dalla Legge, in modo così da rassicurare lo spettatore sulla sostanziale tenuta del sistema. Solo che in questa storia le vittime sono reali, e reali sono i crimini per cui il sergente dell’US Army Calvin Gibbs, 26 anni, è stato condannato al carcere a vita.
La Corte marziale ha dovuto discutere per quattro ore in camera di consiglio prima di arrivare al verdetto di colpevolezza. Gibbs, mandato in Afghanistan con la quinta Brigata Stryker dell’esercito statunitense, da gennaio a maggio del 2010, era schierato nella zona di Kandahar, una delle più pericolose del Paese. Lui e il suo plotone, secondo l’accusa, sono andati “fuori controllo”: uso di droghe, pestaggi di commilitoni che provavano ad opporsi alla condotta del reparto, violazioni di ordini e soprattutto, uccisione indiscriminata di civili afgani. Gibbs è stato condannato per tre omicidi e un totale di 15 reati, compreso il vilipendio di cadavere e la falsificazione di prove. Secondo le toghe, infatti, Gibbs non solo ha ucciso dei civili afgani disarmati ma in alcuni casi ha riportato dei “trofei” di guerra, come dita delle mani delle sue vittime, e in altri lui e i suoi commilitoni hanno messo armi vicino ai civili uccisi per farli sembrare dei guerriglieri. Gli omicidi sono avvenuti all’inizio del 2010 e a marzo del 2011, a indagini già avviate, sono state diffuse le fotografie delle “imprese” della squadra. Foto così gravi che l’Us Army, in un comunicato ufficiale, ha dovuto scusarsi per la condotta dei suoi soldati. Condotta che aveva causato nell’opinione pubblica statunitense una reazione di indignazione simile a quella seguita alla diffusione delle foto delle torture nella prigione irachena di Abu Ghraib.
Altri quattro soldati del plotone di Gibbs, accusati assieme a lui, hanno scelto di ridurre i danni e si sono dichiarati colpevoli dei reati contestati dalla corte marziale. Due soldati, anzi, hanno anche testimoniato contro il sergente. I suoi avvocati difensori, però, hanno cercato di dimostrare come non fosse il solo Gibbs a essere coinvolto nelle efferatezze, ma tutta o quasi l’unità, divenuta tristemente famosa con il soprannome di Kill team. Le indagini per accertare le responsabilità individuali dei singoli soldati sono durate un anno e mezzo. E alla fine Gibbs è stato condannato all’ergastolo, anche se la corte marziale ha lasciato aperta la possibilità di accedere alla libertà condizionata dopo aver scontato almeno 9 anni di pena.
L’intero caso nasce proprio dall’esercito statunitense, da un’indagine interna alla brigata, che si era resa conto del pericolo – politico e militare – rappresentato da un plotone fuori controllo. Nell’udienza è emerso che un soldato del plotone, Adam Wienfield, aveva anche raccontato ai suoi genitori la prima uccisione di un civile afgano e li aveva avvisati che ce ne sarebbero state altre. Il padre di Wienfield, allora, aveva riferito l’accaduto a un sergente della base dove l’unità è di solito schierata, sperando in un’inchiesta, che però non è arrivata. Wienfield è stato uno di quei soldati che ha ammesso la propria responsabilità ed è stato riconosciuto colpevole di omicidio involontario, perché, secondo la sua testimonianza, il sergente Gibbs lo aveva minacciato di morte se si fosse rifiutato di assecondare il comportamento del plotone. Un altro soldato, Jermy Morlock – condannato a 24 anni di carcere a marzo di quest’anno in un processo separato perché ha scelto di patteggiare con l’accusa – ha detto alla corte marziale che Gibbs aveva iniziato a parlare di uccidere civili fin da quando era entrato in forza all’unità. Un dettaglio che ha spinto la corte marziale a ritenere premeditati gli omicidi di civili. Morlock e Gibbs sono stati i soli ad essere condannati per più di un omicidio. Altri sette soldati sono stati indagati per reati minori e cinque di loro sono stati condannati.
Inoltre, secondo il maggiore Dre Leblanc, uno dei procuratori dell’accusa, Gibbs sarebbe stato motivato da un profondo odio etnico contro gli afgani, che spesso definiva “selvaggi”. Uno sceneggiatore di Hollywood non avrebbe saputo fare meglio per tratteggiare il “cattivo” perfetto. Un bravo sceneggiatore, però, avrebbe insinuato nello spettatore il dubbio che il cattivo è comunque un prodotto dello stesso sistema che poi lo scarica per ripulirsi la coscienza.
di Joseph Zarlingo