Il timore era di essere in pochi ieri pomeriggio, a Roma. Mentre Berlusconi esalava l’ultimo respiro – politico –, ero tra la folla che ha fatto la spola tra i palazzi del potere in attesa di dimissioni che sembravano non arrivare mai. Si era partiti alle 17, davanti a Montecitorio e a Palazzo Chigi, a vedere che succedeva. Poi, un’ora dopo, con tutti e due gli occhi chiusi da parte dei vigili, un corteo improvvisato partiva per via del Corso in direzione Palazzo Graziali.
Davanti alla residenza di Berlusconi a Roma, per una volta non entravano Smart e auto blu con meteorine, deputatine, papponi alla Tarantini, faccendieri alla Lavatola. Ma c’erano alcune centinaia di persone a urlare “Mafioso”, “Vergogna” e soprattutto quello che diventerà il vero leit-motiv della giornata: “Buffone”.
Passa Lupi, e sono fischi. Passa Cicchitto, altri fischi. Arriva una faccia di cera con le sembianze di Matteoli. Fischi su fischi su fischi.
Di lì a poco si parte per il Quirinale. Non c’è niente di organizzato, non ci sono bandiere e partiti, non ci sono striscioni, volantini, coreografia. C’è solo un fiume di gente che avverte un richiamo della foresta: il desiderio di esserci, testimoniare, certificare con i propri occhi che Berlusconi, questa volta, se ne va davvero.
La folla in piazza è tenuta ai lati da cordoni della polizia. Gli agenti sono tutti benevoli, sembrano quei militari che nelle rivoluzioni si voltano ed entrano nella folla tra gli abbracci. Non si arriva a questo, ma “Mo’ che stacco me vado a cambià e vado a festeggiare pure io”, dice un agente. Qualcuno si cerca in tasca delle monetine e trova solo due euro. “Pure queste glie vuoi da’?” gli fa un altro poliziotto.
Quando alle nove Berlusconi arriva in piazza scortato da un cordone blindato, la folla è come risucchiata dalla necessità di arrivargli il più possibile vicino. “Buffone Buffone”. Tutti spingono, i cordoni non reggono più, si arriva quasi sotto all’ingresso del Palazzo. “Buffone Buffone”.
Quella mezz’ora in cui rimane al Quirinale sembra non finire mai. C’è il timore di un ultimo colpo di coda. Di un azzardo imprevisto che stravolga ogni pronostico. Ma non è così. Tramite gli smartphone la notizia arriva. Si diffonde in un attimo. Parte un coro spontaneo “Li-be-ri-li-be-ri”. Saltano i tappi della bottiglie, l’inno di Mameli sovrasta la piazza, la tensione si scioglie in trenini festosi A-e-i-o-u-y. E urla “Liberi Liberi”.
Al Quirinale, ieri sera, c’era popolo di ogni sorta. Ma un dato va registrato: una buona maggioranza era composta da trentenni e quarantenni. Forse c’era da aspettarselo. Io ho 34 anni. E da quando voto – la prima volta nel 1995 – c’è sempre stato Berlusconi sulle schede elettorali. Coloro che si sono visti piombare Berlusconi nella propria vita da adolescenti, da ragazzi, erano i più titolati a dargli il benservito ieri. Quelli che hanno avuto davanti soltanto un mondo che continuava a correre mentre il loro paese si congelava sotto lo strapotere di Arcore, non potevano rimanere silenti, l’ultimo giorno, l’ultima volta.
“Buffone buffone” era l’urlo che saliva ieri dalla folla. Non uno slogan a caso. Ma una sintesi perfetta del lascito di Berlusconi: un paese sull’orlo della bancarotta dopo migliaia di promesse, falsità e menzogne spacciate da un giornalismo diventato propaganda; da partiti trasformati a suon di denari in club di ultrà.
Casini scrive oggi su Twitter: “Le scene di ieri sera mi hanno rattristato: non c’è niente di peggio degli insulti dei vincitori sui vinti”.
Non si tratta di questo. Ieri si è festeggiata la liberazione dell’Italia da un potere abnorme. Ieri il popolo ha dimostrato che tutti i regimi fondati sulle menzogne non conquistano mai il cuore della gente. Non c’era modo migliore, dal basso e per giunta nella piazza di tutti, quella del Quirinale, per dire addio a un uomo che per la sua vanità e la sua sete di potere ha rovinato vent’anni della nostra vita.