Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini parla di “forte preoccupazione”, il presidente del Comitato centrale Giorgio Cremaschi sceglie al tempo stesso parole ancor più pesanti definendo le misure “pessime e inique”. Bastano poche note ufficiali giunte nel tardo pomeriggio di ieri per capire fin da subito il tenore del livello di scontro. Mario Monti ha da poco concluso il suo primo discorso in Senato e la sua premessa sull’assenso delle parti, più volte sostenuta anche nei giorni scorsi, sembra già vacillare. “Il massacro sociale è già in atto e così lo si aggrava e basta – afferma Cremaschi – . Bisogna mobilitarsi contro questo programma, altro che patto sociale”. Il senso delle parole è più chiaro che mai: i sindacati sono già su piede di guerra. E non è difficile comprendere il perché.
Il nodo centrale è contenuto in quell’espressione pronunciata dal neo premier nel corso del suo primo intervento: spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro. Tradotto, la famosa, o famigerata a seconda dei punti di vista, contrattazione di prossimità. Quel principio messo nero su bianco dal celebre articolo 8 testo di legge dell’ultima manovra governativa. “Ci viene chiesto dalle autorità europee”, sottolinea Monti, e il suo riferimento è più che evidente. Già in estate , l’ormai leggendaria missiva inviata dall’ora numero uno della Bce Jean-Claude Trichet e dal suo successore Mario Draghi al governo italiano conteneva un chiaro invito alla riforma del mercato del lavoro. Un mercato, quest’ultimo giudicato eccessivamente rigido tanto dalla presenza forti tutele occupazionali (l’articolo 18) quanto dai sistemi di contrattazione collettiva. Esattamente i due aspetti sui quali la Fiom non ha, più che comprensibilmente, intenzione di cedere.
Il casus belli, ovviamente, ha da tempo un nome e cognome: Sergio Marchionne. Maurizio Landini non lo cita direttamente, ma è solo un dettaglio. Perché “l’intenzione della Fiat di estendere a tutto il gruppo il modello Pomigliano”, che Landini definisce “inaccettabile” e di fatto illegale (“in violazione allo Statuto dei lavoratori”) è da sempre il tasto preferito dell’amministratore delegato. All’inizio di ottobre, come noto, la Fiat ha annunciato l’intenzione di abbandonare Confindustria a partire dal 2012. Una scelta, quest’ultima, motivata presumibilmente più dalla perdita di centralità della sede italiana (rispetto agli investimenti programmati in direzione Detroit) che da altro. Ma che, al tempo stesso, ha costituito l’occasione perfetta per un chiaro rilancio sul tema caldo delle relazioni sindacali. In una missiva aperta, nell’occasione, Marchionne parlò più o meno implicitamente di “incertezza delle riforme” lasciando intendere un certo disappunto per il tentennamento di alcuni settori produttivi troppo inclini alla ricerca di un compromesso con le parti sociali.
A preoccupare il sindacato, però, non c’è solo il tema dei contratti nazionali. “È necessario colmare il fossato che si è creato tra le garanzie e i vantaggi offerti dal ricorso ai contratti a termine e ai contratti a tempo indeterminato – ha dichiarato Monti – , superando i rischi e le incertezze che scoraggiano le imprese a ricorrere a questi ultimi”. La traduzione è evidente: libertà di licenziamento per ragioni economiche e conseguente ridimensionamento dell’articolo 18.
Certo sul tavolo resta sempre la questione ammortizzatori sociali, sistemi di welfare che, secondo Monti, dovrebbero andare incontro a “una riforma sistematica”. L’obiettivo, ha chiarito, è “garantire a ogni lavoratore che non sarà privo di copertura rispetto ai rischi di perdita temporanea del posto di lavoro”. In sostanza si parla di sussidi di disoccupazioni, una risorsa che oggi manca ai più e che, in teoria, dovrebbe compensare almeno in parte una rinnovata flessibilità contrattuale. Il tutto, ovviamente, a patto che nelle casse dello Stato ci siano i soldi per finanziare i nuovi ammortizzatori. Ma questo, si sa, è un altro problema. Il più importante di tutti, ovviamente.