Chi è Adelson Pugliese e perché è così importante nella bancarotta della Parmalat? E’ il pentito brasiliano di una storia che ancora deve essere scritta definitivamente. “O senhor” Adelson era il semplice autista di un signore italiano che di nome faceva Giuseppe Grisendi: ovvero l’”ambasciatore”, in Sud America, di Calisto Tanzi, da Collecchio, Parma, il patron, meglio padre-padrone di un gruppo alimentare mondiale, Parmalat, latte, yogurth, merendine, succhi di frutta, ma anche creatore, per partenogenesi basata sul marchio Parma, di Parmatour, compagnia di viaggi e turismo.
Per gli americani “O senhor” Adelson potrebbe essere il classico “whistleblower”, letteralmente “chi soffia dall’interno”, cioè chi spiffera, apre il libro dei segreti inconfessabili di chi si macchia di reati, soprattutto societari. Per noi, appunto, un pentito, ma di vaglia. Su modi e trucchi usati dai suoi superiori per disperdere fiumi di soldi in Brasile e resto del continente lui l’ha detto e ridetto ai magistrati del suo paese, che indagavano dal 2003 sulla bancarotta planetaria di Parmalat.
Laggiù sono stati inghiottiti 1,3 miliardi di dollari, una parte del più colossale buco della storia della finanza italiana, 14,5 miliardi di euro, a danno di 150 mila risparmiatori truffati in un vorticoso tourbillon di paradisi fiscali del globo. “Bastava guardare nel doppio fondo di un container che trasportava denaro nascosto nel prototipo di una vettura da Formula Uno”, ha raccontato quell’autista originario di San Paolo allo stupefatto giudice Carlos Enrique Abrao, titolare dell’inchiesta penale nello stato carioca. Già, perché Parmalat era sponsor, in Brasile, non solo di squadre di calcio, ma anche del pilota Nelson Piquet e del suo team (del tutto ignari di quel che succedeva sotto i loro occhi).
E’, questo, uno dei tanti “giochi di prestigio” à la Parmalat, spiegati nel libro “L’Italia dei crack”, scritto dalla giornalista del “Sole24Ore” Mara Monti (Newton Compton Editori), 280 pagine che ricostruiscono fatti, misfatti e crimini dei colletti bianchi negli anni Duemila con le loro società: da Parmalat a Cirio, ma anche, in rivoli minori, da Giacomelli a Fin. Part, da Italease a Finmatica e Freedomland (un nome, un programma…), fino ad altri aspiranti finanzieri, pronti a turlupinare il pubblico del “parco buoi”, come spregiativamente vengono definiti quei poveracci che non hanno nessuna colpa se non quella di essere finiti nelle fauci di autentici pescecani.
Tanzi è in prigione, dove sta scontando una condanna, sancita dalla Corte di Cassazione, a otto anni, per aggiotaggio. Per la bancarotta, in primo grado, ha preso altri 18 anni, processo approdato, dal 12 dicembre, alla Corte d’Appello di Bologna per il giudizio di secondo grado.
Come sia potuto accadere che Calisto Tanzi, ex Cavaliere del lavoro, dopo che gli è stata revocata questa alta onorificenza, abbia potuto navigare indisturbato per decenni nel mare della finanza, se lo è chiesto anche il procuratore capo di Parma, Gerardo Laguardia, con una dichiarazione riportata nel libro: “Quel che più stupisce non è il ricorso di un imprenditore in difficoltà all’uso improprio di strumenti finanziari e falsificazioni di vario genere per fronteggiare i deficit di bilancio, quanto il fatto, ormai inconfutabile, che – continua – una società che ha accumulato sin dai primi anni di attività perdite ingenti, sia riuscita a sopravvivere per tanto tempo”. Una risposta c’è: lo scudo protettivo di banche, società di revisione e, ovviamente, partiti politici, finanziati a più riprese, ha giocato un ruolo fondamentale nel celare lo stato di decozione della holding di Parma.
La politica, dunque, sempre in primo piano, la sponda da utilizzare nel momento del bisogno, grazie a entrature, finché Tanzi era sulla cresta dell’onda, presso il sistema bancario. E quando è ormai troppo tardi e si è all’ultima spiaggia, ecco l’estrema richiesta di aiuto. Se ne fa promotore lo stesso Calisto andando da chi contava di più allora, Silvio Berlusconi. A fine novembre 2003, quando la burrasca sta per scoppiare, l’uomo di Collecchio varca Palazzo Grazioli, residenza privata dell’allora premier, in compagnia del figlio Stefano. Conosce Berlusconi da molti anni, ha finanziato fin dall’inizio “Forza Italia”. Gli parla di calcio, del possibile scambio di giocatori tra Milan e Parma, in tutto quindici minuti, scanditi da una confessione finale: “Fu un incontro cordiale. Gli ho detto che stavamo attraversando un momento molto brutto, che stavamo in piena bufera” e ancora “che avevamo bisogno del suo intervento presso le banche e presso la Consob che stava facendo troppe domande. Non ho mai parlato, come avrebbe voluto mio figlio, dell’esatta entità e dell’estrema gravità della situazione finanziaria. Berlusconi mi disse che sulle banche poteva fare poco, mentre invece avrebbe telefonato alla Consob”.
Dunque il presidente del Consiglio promette di fare pressione sulla Consob, l’ente regolatore della Borsa, che “stava facendo troppe domande”. Il che sarebbe normale in un paese normale, dove il controllore controlla il controllato. Ma l’Italia non è un paese normale. E’ un paese dove il potere politico nomina chi vuole a una condizione: poter esercitare la sua influenza.