Uno degli assi portanti su cui poggia la valutazione del sistema universitario è quello della trasparenza. Molto spesso nell’eclisse della trasparenza sono state prese decisioni inique, opportunistiche e anche scandalose. A volte si sono favoriti i propri cari, tanto che in alcuni campi ci sono generazioni di persone che fanno lo stesso mestiere: nulla di male, se non quando accade che abbiano gli uffici l’uno accanto all’altro. Mentre questi casi sono spesso, e a ragione, segnalati dalla stampa, va rilevato come il problema strutturale del reclutamento non riguarda tanto l’assunzione dei figli biologici, quanto dei figli accademici, ovvero di coloro che fanno la carriera all’ombra del proprio “maestro” di riferimento: troppo spesso la fedeltà viene premiata più dell’indipendenza.
Una maggiore trasparenza nelle scelte e nella selezione delle persone dovrebbe essere uno strumento fondamentale per bloccare le nefandezze più eclatanti e per ridare autostima all’intera comunità accademica. Recentemente, un gruppo di ricercatori ha fatto leva sul concetto di trasparenza per bloccare, almeno temporaneamente, l’esito di un concorso di ricercatore. Perché ciò accadesse vi è stata una certa mobilitazione culminata con una lettera aperta al rettore dell’università in questione.
Si tratta di un posto di ricercatore in Economia, in cui, secondo gli estensori della lettera, “la vincitrice designata, a differenza di tutti gli altri 12 candidati, non presentava alcuna pubblicazione su rivista, né internazionale né italiana”. Numerosi economisti hanno firmato la lettera fidandosi dell’analisi riportata nella petizione, o avendo conoscenza diretta del caso, o avendo fatto qualche indagine in proprio. Secondo gli autori della lettera, “il meccanismo della trasparenza ha funzionato a meraviglia: è bastato esporre in maniera chiara e oggettiva un quadro comparativo della produzione scientifica dei candidati”. Chiaramente questa vicenda dovrà essere chiarita in tutti i suoi aspetti dagli organismi preposti che dovranno verificare quanto denunciato.
Lo stesso meccanismo della trasparenza, così efficace per un concorso locale, pare però non avere nessun riscontro per una vicenda ben più importante che riguarda una questione di rilievo nazionale. E’ noto, infatti, che l’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca ha da poco dato il via al processo di valutazione della ricerca che coinvolgerà tutte le istituzioni di ricerca nei prossimi due anni. Il ruolo chiave nelle procedure di valutazione è assegnato ai gruppi di esperti della valutazione (Gev) che avranno il delicato compito di definire i criteri e gestire direttamente la valutazione dei singoli prodotti di ricerca.
Chi sceglie gli esperti della valutazione e con che criteri? Come spiega Alberto Baccini, la procedura di selezione non è del tutto trasparente e “soprattutto non offre sufficienti garanzie sul fatto che i Gev non siano preda di gruppi accademici in grado di controllare i risultati della valutazione. Purtroppo, nell’accademia italiana non è remoto il pericolo che gruppi di accademici si coalizzino per pilotare concorsi, chiamate e l’esito delle procedure per l’attribuzione di fondi di ricerca.” Per vedere se questo è il caso per quel che riguarda i membri del Gev di Scienze economiche e statistiche, un’area disciplinare particolarmente delicata, perché la tensione e le polemiche tra approcci diversi alla ricerca sono stati molto forti, Baccini ha fatto un’analisi di rete sociale verificando la vicinanza/distanza tra i membri del Gev attraverso il coautoraggio di pubblicazioni scientifiche.
Il risultato è che “nel Gev sono presenti complessivamente 9 membri (45%) che hanno firmato insieme uno o più articoli; e 12 membri (60%) hanno lavorato con almeno un coautore comune esterno al Gev. Quindi il 75% dei membri è a distanza 2 o inferiore da un altro membro del Gev. Sono solo 5 (25%) i membri che non hanno coautori nel gruppo.” Al contrario, l’analisi di un analogo gruppo operante per l’agenzia di valutazione inglese mostra che “sono appena 3 i membri del panel che hanno scritto almeno un articolo insieme (18% contro 45% italiano); i membri del panel che non hanno coautori interni sono il 35% contro il 22% del Gev. Questi ultimi hanno affiliazioni diverse tra loro e dagli altri membri. E, si badi bene, il panel britannico non prevede membri esteri”.
Baccini conclude scrivendo “Il Gev italiano appare, per così dire, strutturalmente diverso rispetto al modello britannico. E’ auspicabile che il consiglio direttivo dell’Anvur intervenga opportunamente.” Certamente è auspicabile che l’Anvur, che sta ricevendo una serie di critiche argomentate, motivate e niente affatto strumentali, intervenga per correggere una questione così importante e delicata, per non giocarsi in partenza la propria credibilità. A noi però rimane la domanda: una vicenda che coinvolge la valutazione a livello nazionale non meriterebbe anch’essa una petizione? O è forse, appunto, una questione di network?