Il denaro pubblico dato all’ospedale San Raffaele finisce “nelle mani di loschi gruppi di potere clericali che lo utilizzano per attività speculative e clientelari, sulla pelle degli ammalati”. Una denuncia durissima contro la “gestione mafiosa” dell’istituto, ma non è di oggi. Trentaquattro anni prima che l’ospedale milanese finisse travolto da un crac miliardario e dallo scandalo dei fondi neri messi da parte per beneficiari ancora da individuare, una pattuglia di deputati radicali metteva nero su bianco nei documenti della Camera un severo atto d’accusa contro l’allora poco conosciuto don Luigi Verzé e la sua impresa.
“Il Presidente del consiglio di amministrazione dell’ospedale San Raffaele, ‘don’ Luigi Maria Verzé è stato sospeso a divinis dalla Curia milanese nel 1973”, si legge nell’interrogazione presentata tra gli altri da Emma Bonino e Marco Pannella il 4 aprile 1978. Don Verzé “è stato condannato dal tribunale di Milano a un anno e quattro mesi di reclusione per tentata corruzione in relazione alla convenzione con la facoltà di medicina dell’università Statale e la concessione di un contributo di due miliardi da parte della Regione. E’ stato incriminato di truffa aggravata nei confronti della signora Anna Bottero alla quale ha sottratto un appartamento del valore di 30 milioni”.
L’eccellenza in campo scientifico e sanitario che il San Raffaele ha conquistato nei decenni successivi è universalmente riconosciuta. Ma, al tempo stesso, la sua è una tipica storia italiana di scandali avvenuti sotto gli occhi di tutti, e che tutti (o quasi) hanno fatto finta di non vedere. Fino all’epilogo: il buco di bilancio da un miliardo e mezzo di euro, il concordato preventivo, l’inchiesta penale aperta dalla Procura di Milano che ha già accertato un giro milionario di denaro in nero tra i fornitori e i vertici dell’istituto, il tragico suicidio del direttore finanziario Mario Cal quando tutto questo cominciava a disvelarsi, la morte per infarto (al quale non tutti credono) del novantunenne fondatore don Verzé nell’ultimo giorno del 2011.
“L’ospedale San Raffaele ha iniziato la sua attività nel settembre del 1971, nonostante l’ufficiale sanitario ne abbia negato l’agibilità”, denunciavano i deputati radicali, e il riconoscimento ministeriale è arrivato nel 1972 “nonostante la ferma opposizione della Regione Lombardia”, il cui assessore alla Sanità aveva parlato di un “atto di pirateria politica”. Un riconoscimento arrivato nonostante una sfilza di irregolarità, secondo Bonino e Pannella, in merito alle attrezzature mediche alla gestione del personale. Fatti che inducevano i radicali a chiedere ai ministri competenti di “ricercare le connivenze e le responsabilità eventuali dell’amministrazione dello Stato che hanno determinato questa scandalosa situazione”.
L’ATTO D’ACCUSA DEI RADICALI NEL VERBALE DELLA CAMERA
Una carriera spregiudicata quella di don Luigi Verzé, il “prete manager” che preferiva il doppiopetto alla tonaca e il business alla liturgia. Un’indole che gli è costata la proibizione “di esercitare il sacro mistero”, decisa dalla Curia di Milano il 26 agosto 1964, e una sospensione a divinis del 1973. Dagli esordi a oggi, la parabola di don Verzé si intreccia con quella di Silvio Berlusconi. E’ la Edilnord di Berlusconi, a partire dal 1969, che sovraintende alla costruzione dell’ospedale San Raffaele, su un terreno di Segrate, poco distante dalla nascente Milano 2, acquistato dal Centro di assistenza ospedaliera Monte Tabor con 600 milioni di lire di fondi statali ottenuti grazie ai buoni uffici della Democrazia cristiana.
Tutta la vicenda urbanistica è segnata da accuse di abusi edilizi e tentativi di corruzione di politici locali, come racconta Giovanni Ruggeri in “Berlusconi. Gli affari del presidente” (Kaos edizioni 1994). Abusi che ricorrerrano nella folgorante espansione dell’ospedale. Nel 1998 don Verzè sarà condannato due volte dal Tribunale di Milano: a un mese di reclusione per aver fatto tirar su senza licenza una palazzina di tre piani per la nuova accettazione dell’ospedale, e a dieci giorni per aver proseguito i lavori nonostante la prima sentenza di colpevolezza. Il sacerdote evita il carcere grazie alla sospensione condizionale della pena.
Il duo Berlusconi-Verzé agisce all’unisono nel 1971, quando interviene presso il ministero dei trasporti perché il frastuono del traffico aereo del vicino aeroporto di Linate disturba la quiete dei degenti del San Raffaele e degli inquilini di Milano 2, che all’epoca sono appena 200. Con grande tempestività, Civiliavia impone lo spostamento del corridoio di uscita dei jet dallo scalo milanese. L’inquinamento acustico è così dirottato su un pugno di comuni dell’hinterland densamente popolati. Seguono proteste e petizioni, e la vicenda porterà alla condanna del direttore generale dell’Aviazione civile.
Il rapporto tra il prete-manager e l’imprenditore-politico resterà saldo nei decenni a venire. Per don Verzé, Berlusconi è “l’uomo mandato dalla Divina provvidenza”. Per Berlusconi, don Verzé è “un uomo raro, un grande imprenditore”. E’ al San Raffaele che l’allora presidente del consiglio viene ricoverato dopo essere stato ferito in faccia da una statuina del Duomo di Milano, il 13 dicembre 2009. E al San Raffaele lavora come igienista dentale Nicole Minetti, gran sacerdotessa delle “cene eleganti” di Arcore, arrivata in consiglio regionale lombardo dopo essere stata piazzate nel listino bloccato del governatore lombardo Roberto Formigoni.
Il 3 marzo 1977 il Tribunale di Milano condanna don Verzé per istigazione alla corruzione, per aver cercato di “comprare” l’assessore alla Sanità della Regione Lombardia, Vittorio Rivolta, per ottenere un contributo regionale di due miliardi di lire. Nelle motivazioni della sentenza, il prete manager è definito “un imprenditore abile e spregiudicato, inserito in ambienti finanziari e politici privi di scrupoli sul piano etico e giuridico-penale”. La condanna sarà cancellata dalla prescrizione del reato.
Una divina provvidenza che salverà don Verzé da altre due condanne: per truffa – il caso Bottero citato da Bonino e Pannella nell’interrogazione del 1978 – e per concorso in ricettazione. Quest’ultima vicenda si riferisce a un quadro, una Madonna piangente davanti a Cristo, rubato da una chiesa napoletana e riapparso a Segrate in una cascina annessa al San Raffaele. Nel 2005 don Luigi Verzè è stato condannato a un anno e quattro mesi. L’11 gennaio 2011 la Cassazione ha sancito la prescrizione, senza però assolvere nel merito il fondatore dell’istitituto ospedaliero, come richiesto dai suoi legali. Perché, si legge nelle motivazioni, “il giudice del rinvio ha correttamente fornito un’ampia e consistente giustificazione, spiegando in modo ragionevole che don Verzè era al corrente della provenienza illecita dei quadri”.
Nei suoi 91 anni di vita, il fondatore del San Raffaele ha saldato legami di ferro con i vertici del potere lombardi e non solo. Un’inchiesta della Procura di Milano su una vicenda esterna al San Raffaele ha documentato un rapporto confidenziale con il generale Niccolò Pollari, allora direttore del Sismi, con il quale tra l’altro don Verzé discute su come intimidire i titolari di un impianto sportivo confinante con l’ospedale, che non vogliono rassegnarsi a sloggiare per far spazio a un’ulteriore espansione dell’istituto. Mentre – proprio in una lettera a Berlusconi – si professa “uomo fedele e leale di don Verzé” Pio Pompa, ex collaboratore del San Raffaele passato al servizio segreto militare, finito al centro dello scandalo su dossieraggi e depistaggi ai danni di magistrati e giornalisti. Tra il Sismi e il San Raffaele intercorrono controversi affari immobiliari.
La fine della storia sta cercando di scriverla la Procura di Milano, nell’inchiesta scaturita dal crac finanziario emerso l’estate scorsa, che vedeva tra gli indagati lo stesso don Verzé. Le testimonianze di manager e fornitori del San Raffaele hanno fatto emergere un sistema di sovrafatturazioni sugli acquisti di beni e servizi, in vigore durante la gestione del prete manager, studiato per creare riserve di fondi neri che tornavano nelle casse dell’istituto. I magistrati stanno cercando di capire chi fossero i destinatari di questo fiume sotterraneo di denaro. In carcere è finito tra gli altri Pierangelo Daccò, intermediario d’affari ritenuto uomo di collegamento con le istituzioni.
Nel lontano 1978, i guastafeste radicali avevano visto lungo. Poi, per più di trent’anni, molti hanno chiuso gli occhi.