Il referendum elettorale non si può fare perché, se passassero i sì, ci sarebbe un “vuoto normativo”. Lo afferma la Corte costituzionale nelle motivazioni della sentenza che il 12 gennaio ha ritenuto inammissibili i quesiti volti a ottenere il superamento del “Porcellum”. Il quesito numero uno, che chiedeva l'”abrogazione della legge 21 dicembre 2005, n. 270″ (il “Porcellum”, appunto), “è inammissibile perché riguarda una legge elettorale nella sua interezza e, ove il referendum avesse un esito positivo, determinerebbe la mancanza di una disciplina ‘operante’ costituzionalmente necessaria”. La legge elettorale, infatti, deve essere “auto-applicabile, in ogni momento, nella sua interezza”.
Quanto al secondo quesito, che puntava a ottenere lo stesso risultato abrogando uno a uno gli articoli dell’attuale legge elettorale, secondo la consulta “è inammissibile per contraddittorietà e per assenza di chiarezza”, oltre che per il medesimo rischio di vuoto normativo.
Per abolire la legge voluta dalla maggioranza di centrodestra nel 2005, che sancisce il sostanziale ritorno al proporzionale senza la possibilità di esprimere il voto di preferenza sui candidati, erano state raccolte un milione e 200 mila firme. La battaglia per il ritorno alla vecchia legge maggioritaria, nota come il “Mattarellum”, era stata promossa in particolare da Arturo Parisi (Pd), Antonio Di Pietro (Idv) e Mario Segni.
I giudici della Consulta premettono che “non spetta a questa Corte” pronunciarsi sulle questioni di incostituzionalità dell’attuale legge elettorale. “Già nel 2008 è stato escluso”, scrivono, “che in sede di controllo di ammissibilità dei referendum possano venire in rilievo profili di illegittimità costituzionale della legge oggetto della richiesta referendaria”. In quell’occasione fu comunque “segnalata al Parlamento l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici della legislazione prevista nel 2005”. Tra gli aspetti costituzionalmente controversi del “Porcellum”, la corte elenca “l’attribuzione dei premi di maggioranza senza la previsione di alcuna soglia minima di voti o seggi; l’esclusione dei voti degli elettori della Valle d’Aosta e della circoscrizione Estero nel computo della maggioranza ai fini del conseguimento del premio; il meccanismo delle cosiddette liste bloccate; la difformità dei criteri di assegnazione dei premi di maggioranza tra Camera e Senato; la possibilità di presentarsi come candidato in più di una circoscrizione”.
Il senatore Pd Stefano Ceccanti prende atto della decisione della Corte, ma sottolinea che ora è il Parlamento a dover intervenire: “Una nuova legge elettorale, capace di aggiungere alla legittimazione diretta dei governi la scelta dei rappresentati oggi assente, è una necessità ineludibile”.