Sì al documento su lavoro a crescita, sì al fondo salva Stati, sì anche all’approvazione del fiscal compact. Resta ovviamente fuori il Regno Unito, ma questo era scontato, si riallinea la Polonia, è invece ferma l’opposizione della Repubblica Ceca. Questa la conclusione del lunghissimo vertice europeo di oggi.
Nel tardo pomeriggio, il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy aveva annunciato l’approvazione del documento su lavoro e crescita. Il testo si focalizza sull’allarme disoccupazione (fenomeno che coinvolge tuttora 23 milioni di europei) promuovendo, tra le altre cose, la mobilitazione di fondi per finanziare programmi di apprendistato e di sostegno all’imprenditoria. L’accordo sulla sua versione definitiva non è mai apparso in discussione.
Approvato in extremis anche il documento finale sul Fiscal compact, il piano che dovrebbe condurre alla tanto auspicata unione fiscale dell’Ue. Varsavia aveva inizialmente preteso il coinvolgimento di tutti i Paesi dell’Unione nel processo decisionale riservato attualmente alla sola Eurolandia. Determinante nel passo indietro polacco l’opposizione della Francia. La Repubblica Ceca, al contrario, resta ferma sulle sue posizioni ma non è detto che non si raggiunga un compromesso in futuro. Il piano prevede l’obbligo di pareggio di bilancio accanto ai consolidati parametri di stabilità: deficit/Pil al 3%, debito non superiore al 60% del prodotto interno. Non ancora chiara, invece, la decisione sul sistema delle sanzioni: qualcuno, a cominciare dall’Olanda, le vorrebbe automatiche, ma molti Paesi si oppongono.
Accordo raggiunto anche sul via anticipato del Fondo salva Stati Esm che entrerà in vigore già a partire da luglio. Resta ancora da definire la cifra definitiva della sua portata, argomento che verrà toccato nuovamente nei prossimi appuntamenti istituzionali dell’Ue. La Germania è contraria ad un aumento delle risorse ma non è escluso che possa cedere in futuro. L’ipotesi, in questo senso, consisterebbe nell’attivazione congiunta delle risorse dei due fondi di intervento: l’Efsf e l’Esm, con la somma complessiva da mettere a disposizione del Continente per fronteggiare la crisi del debito. Ovviamente nessuno si augura che ce ne sia bisogno, ma in caso di necessità l’Europa potrebbe contare su una copertura non indifferente, la cui sola presenza potenziale, è evidente, dovrebbe avere effetti positivi nelle valutazioni stesse del mercato.
“E’ stato un caso molto buono di successo e cooperazione”, ha dichiarato al termine del vertice il presidente del Consiglio Mario Monti, che si è dichiarato molto soddisfatto sia del risultato dei lavori che dell’apprezzamento “senza precedenti” ricevuto dal suo governo: “Siamo confortati dall’andamento dei mercati e dai giudizi sulla politica economica dell’Italia formulati dappertutto, non guardiamo al corroboramento dei fondi ‘Salva Stati’ come chi pensa di avere bisogno del denaro di questi fondi. Ci sentiamo più co-protagonisti di una storia di governance che come possibili quasi forzati destinatari di queste risorse”.
Quanto alla firma del trattato sul fiscal compact, il presidente del Consiglio ha richiamato l’attenzione sulla posizione dell’Italia di “apertura” ai paesi che ancora non sono nella zona euro e ha dichiarato “soddisfacente” la soluzione trovata: “Non la definirei neanche un compromesso”, ha detto. Monti ha anche voluto rassicurare su un possibile inasprimento del meccanismo per le eventuali procedure di infrazione del rapporto debito/pil: “Nel pieno riconoscimento di quanto stabilito dagli Stati membri, non ci sono ulteriori appesantimenti o aggravi”, ha spiegato. Insomma, per il presidente del Consiglio una trasferta che mette “le controversie alle spalle”: “L’Europa siede su una forte e costituzionalizzata roccia costituita dalla disciplina di bilancio”. Sul tema della crescita, poi, “tutti i paesi, anche i più orientati alla disciplina, non hanno più disagio a parlare di crescita perché sanno che questa non sarà perseguita in deficit. Questo sarà molto positivo per la politica di crescita”.
Resta il capitolo Grecia, questione che pur non rientrando nel programma ufficiale del vertice è comunque emersa in primo piano. Le trattative proseguono ormai da tempo – sono continuate anche dopo la fine ufficiale dell’incontro di oggi – e la domanda è sempre la stessa: quanto manca all’accordo definitivo? Poco, pochissimo, affermano da giorni il premier Papademos e il ministro delle finanze Angelos Venizelos. Eppure la situazione non riesce a sbloccarsi. Le ultime indiscrezioni, lanciate oggi dal Telegraph, parlano di un haircut effettivo del 70%, un sacrificio che toccherebbe ovviamente ai creditori privati ma non alla Bce. Eurotower, infatti, si rifiuta di caricare una perdita sulle obbligazioni elleniche in suo possesso e non è escluso che sia proprio questa scelta a frenare l’intesa definitiva. Il Fmi, di recente, ha chiesto alla Bce di fare un passo indietro, ma per ora non se ne parla.
Come se non bastasse, è noto, ci si è messa di mezzo anche la Germania. Berlino ha lanciato una proposta volutamente provocatoria – “fantasiosa e sgradevole” persino per il notoriamente misurato Monti – chiedendo un commissariamento de facto di Atene. Nessuno, in Europa, è disposto a prendere in considerazione l’ipotesi, in primis la Grecia stessa che mai potrebbe accettare una simile cessione di sovranità. L’ipotesi, a questo punto, è che i tedeschi vogliamo chiedere volutamente l’impossibile per ottenere maggiori concessioni dal governo greco in linea con quanto prescritto dalla Troika: abbattimento del mastodontico e dispendioso apparato pubblico, riforma del lavoro e taglio della spesa. Tutte richieste comprensibili che pure, tuttavia, rischiano di produrre evidenti effetti collaterali sul fronte della crescita alimentando la nota spirale recessiva che negli ultimi due anni ha contribuito più di qualsiasi altro fattore all’aggravamento della crisi ellenica.