A oltre dieci anni dall’inizio del conflitto che determinò la fine dell’Afghanistan dei talebani, gli afgani pensano di essere stati ignorati dalla comunità internazionale nelle loro scelte e aspirazioni. Pensano di esser stati tenuti a margine di processi decisionali presi sula loro testa e credono che poco sia stato fatto in termini di sviluppo, stabilità e sicurezza. Ciò non di meno, temono che l’uscita di scena degli eserciti che occupano adesso il suolo afgano possa nuovamente precipitare il Paese nel caos e, al contempo, paventano che l’abbandono dell’opzione militare si trasformi in un abbandono definivo dell’Afghanistan e della sua gente.
E’ quanto emerge con crudezza da “Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis”, una ricerca condotta, per conto della Ong italiana Intersos, da Giuliano Battiston, giornalista e saggista con una lunga esperienza nel Paese dell’Hindukush. Battiston ha messo insieme lavori precedenti al suo, ricerche e sondaggi, incrociando il lavoro di ricerca in biblioteca con una lunga permanenza sul campo nella regione sotto comando italiano (Regional Command West). Ne esce un quadro in parte già noto e in parte inedito. Comunque sconfortante e che dimostra che, al di là della propaganda, gli afgani hanno sempre meno fiducia nei loro “salvatori”, pur se preferiscono al caos una loro più prolungata permanenza, anche oltre il 2014, data finale per il ritiro delle truppe straniere.
Battiston spiega che il dato più evidente che emerge dalla ricerca è “uno scollamento tra le opinioni espresse ufficialmente dai rappresentanti delle cancellerie occidentali e quelle degli afghani”. I primi sostengono di aver stabilizzato il Paese, i secondi dichiarano al contrario che la comunità internazionale ha “fallito nel garantire la sicurezza alla popolazione” senza produrre “i risultati sperati”. Quei pochi “risultano fragili e temporanei”, percezione che si traduce in un “sentimento molto diffuso di sfiducia verso le forze internazionali, anche tra coloro che gli avevano accordato credito all’inizio dell’intervento militare, nel 2001”. Diffusa poi la convinzione che le attività militari siano state “negativamente condizionate dalla pluralità di orientamenti, di tattiche, agende e obiettivi perseguiti dai singoli contingenti”. Molti lamentano inoltre uno squilibrio “tra i fondi allocati e distribuiti per le operazioni militari e quelli destinati all’aiuto allo sviluppo e all’assistenza delle comunità locali” e rivendicano “un maggiore coinvolgimento nella progettazione, nella realizzazione e nel mantenimento dei progetti, giudicati comunque insufficienti”. Per gli afgani infatti, “sicurezza” è anche “autosufficienza e sostenibilità del sistema economico; piani di ripristino di un quadro istituzionale funzionante e trasparente; strategie per edificare un sistema di diritto efficiente, garanzia di giustizia, uguaglianza e di tutela dagli abusi”. Un tema che ritorna quando alcuni degli intervistati spiegano al ricercatore che “la rivendicazione di giustizia per i crimini passati” non deve essere “subordinata del tutto alla ricerca della pace”. Un chiaro no, insomma, all’impunità.
Alle forze internazionali viene anche imputata una scarsa considerazione delle conseguenze che le loro operazioni hanno sulla popolazione civile: “L’incapacità di distinguere i civili innocenti dai “ribelli”, l’uso indiscriminato di bombardamenti e raid notturni, la violazione degli spazi domestici” messe in atto da soldati che sembrano agire “ fuori di ogni quadro giuridico certo, rispondendo soltanto ai propri codici di condotta” il che ha fatto crescere sfiducia e diffidenza nei loro confronti, “insieme all’idea che siano in Afghanistan per promuovere o difendere i propri obiettivi strategici” anche se “la maggior parte degli intervistati ritiene che non vadano ritirati e che, anzi, debbano restare oltre la data annunciata del ritiro, il 2014” (Vai alla sintesi dell’ultimo rapporto Onu sulle vittime civili: http://emgiordana.blogspot.com/2012/02/crescono-le-vittime-civili-in.html) .
E la pace possibile? Pur sottolineando l’inefficacia della soluzione militare, gli afgani “sostengono la via della riconciliazione (e) della soluzione politico-diplomatica, e ritengono che escludere a priori ogni ipotesi negoziale significhi condannare il paese a un conflitto permanente”. Ma le idee a riguardo restano abbastanza vaghe e confuse anche fra gli afgani, spiega Battiston. Come forse lo sono, aggiungiamo noi, anche nelle nostre teste.
di Emanuele Giordana
Mondo
A 10 dalla caduta talebana, l’Afghanistan non ha più fiducia nei suo salvatori occidentali
E' quanto emerge da “Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis”, una ricerca condotta, per conto della Ong italiana Intersos, da Giuliano Battiston, giornalista con una lunga esperienza nel'Hindukush
A oltre dieci anni dall’inizio del conflitto che determinò la fine dell’Afghanistan dei talebani, gli afgani pensano di essere stati ignorati dalla comunità internazionale nelle loro scelte e aspirazioni. Pensano di esser stati tenuti a margine di processi decisionali presi sula loro testa e credono che poco sia stato fatto in termini di sviluppo, stabilità e sicurezza. Ciò non di meno, temono che l’uscita di scena degli eserciti che occupano adesso il suolo afgano possa nuovamente precipitare il Paese nel caos e, al contempo, paventano che l’abbandono dell’opzione militare si trasformi in un abbandono definivo dell’Afghanistan e della sua gente.
E’ quanto emerge con crudezza da “Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis”, una ricerca condotta, per conto della Ong italiana Intersos, da Giuliano Battiston, giornalista e saggista con una lunga esperienza nel Paese dell’Hindukush. Battiston ha messo insieme lavori precedenti al suo, ricerche e sondaggi, incrociando il lavoro di ricerca in biblioteca con una lunga permanenza sul campo nella regione sotto comando italiano (Regional Command West). Ne esce un quadro in parte già noto e in parte inedito. Comunque sconfortante e che dimostra che, al di là della propaganda, gli afgani hanno sempre meno fiducia nei loro “salvatori”, pur se preferiscono al caos una loro più prolungata permanenza, anche oltre il 2014, data finale per il ritiro delle truppe straniere.
Battiston spiega che il dato più evidente che emerge dalla ricerca è “uno scollamento tra le opinioni espresse ufficialmente dai rappresentanti delle cancellerie occidentali e quelle degli afghani”. I primi sostengono di aver stabilizzato il Paese, i secondi dichiarano al contrario che la comunità internazionale ha “fallito nel garantire la sicurezza alla popolazione” senza produrre “i risultati sperati”. Quei pochi “risultano fragili e temporanei”, percezione che si traduce in un “sentimento molto diffuso di sfiducia verso le forze internazionali, anche tra coloro che gli avevano accordato credito all’inizio dell’intervento militare, nel 2001”. Diffusa poi la convinzione che le attività militari siano state “negativamente condizionate dalla pluralità di orientamenti, di tattiche, agende e obiettivi perseguiti dai singoli contingenti”. Molti lamentano inoltre uno squilibrio “tra i fondi allocati e distribuiti per le operazioni militari e quelli destinati all’aiuto allo sviluppo e all’assistenza delle comunità locali” e rivendicano “un maggiore coinvolgimento nella progettazione, nella realizzazione e nel mantenimento dei progetti, giudicati comunque insufficienti”. Per gli afgani infatti, “sicurezza” è anche “autosufficienza e sostenibilità del sistema economico; piani di ripristino di un quadro istituzionale funzionante e trasparente; strategie per edificare un sistema di diritto efficiente, garanzia di giustizia, uguaglianza e di tutela dagli abusi”. Un tema che ritorna quando alcuni degli intervistati spiegano al ricercatore che “la rivendicazione di giustizia per i crimini passati” non deve essere “subordinata del tutto alla ricerca della pace”. Un chiaro no, insomma, all’impunità.
Alle forze internazionali viene anche imputata una scarsa considerazione delle conseguenze che le loro operazioni hanno sulla popolazione civile: “L’incapacità di distinguere i civili innocenti dai “ribelli”, l’uso indiscriminato di bombardamenti e raid notturni, la violazione degli spazi domestici” messe in atto da soldati che sembrano agire “ fuori di ogni quadro giuridico certo, rispondendo soltanto ai propri codici di condotta” il che ha fatto crescere sfiducia e diffidenza nei loro confronti, “insieme all’idea che siano in Afghanistan per promuovere o difendere i propri obiettivi strategici” anche se “la maggior parte degli intervistati ritiene che non vadano ritirati e che, anzi, debbano restare oltre la data annunciata del ritiro, il 2014” (Vai alla sintesi dell’ultimo rapporto Onu sulle vittime civili: http://emgiordana.blogspot.com/2012/02/crescono-le-vittime-civili-in.html) .
E la pace possibile? Pur sottolineando l’inefficacia della soluzione militare, gli afgani “sostengono la via della riconciliazione (e) della soluzione politico-diplomatica, e ritengono che escludere a priori ogni ipotesi negoziale significhi condannare il paese a un conflitto permanente”. Ma le idee a riguardo restano abbastanza vaghe e confuse anche fra gli afgani, spiega Battiston. Come forse lo sono, aggiungiamo noi, anche nelle nostre teste.
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Kiev, 17 mar. (Adnkronos) - Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha annunciato su X di aver parlato con il presidente francese Emmanuel Macron: "Come sempre scrive - è stata una conversazione molto costruttiva. Abbiamo discusso i risultati dell'incontro online dei leader svoltosi sabato. La coalizione di paesi disposti a collaborare con noi per realizzare una pace giusta e duratura sta crescendo. Questo è molto importante".
"L'Ucraina è pronta per un cessate il fuoco incondizionato di 30 giorni - ha ribadito Zelensky - Tuttavia, per la sua attuazione, la Russia deve smettere di porre condizioni. Ne abbiamo parlato anche con il Presidente Macron. Inoltre, abbiamo parlato del lavoro dei nostri team nel formulare chiare garanzie di sicurezza. La posizione della Francia su questa questione è molto specifica e la sosteniamo pienamente. Continuiamo a lavorare e a coordinare i prossimi passi e contatti con i nostri partner. Grazie per tutti gli sforzi fatti per raggiungere la pace il prima possibile".
Washington, 17 mar. (Adnkronos) - il presidente americano Donald Trump ha dichiarato ai giornalisti che il leader cinese Xi Jinping visiterà presto Washington, a causa delle crescenti tensioni commerciali tra le due maggiori economie mondiali. Lo riporta Newsweek. "Xi e i suoi alti funzionari" arriveranno in un "futuro non troppo lontano", ha affermato Trump.
Washington, 17 mar. (Adnkronos) - Secondo quanto riferito su X dal giornalista del The Economist, Shashank Joshi, l'amministrazione Trump starebbe valutando la possibilità di riconoscere la Crimea ucraina come parte del territorio russo, nell'ambito di un possibile accordo per porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina.
"Secondo due persone a conoscenza della questione, l'amministrazione Trump sta valutando di riconoscere la regione ucraina della Crimea come territorio russo come parte di un eventuale accordo futuro per porre fine alla guerra di Mosca contro Kiev", si legge nel post del giornalista.
Tel Aviv, 17 mar. (Adnkronos) - Secondo un sondaggio della televisione israeliana Channel 12, il 46% degli israeliani non è favorevole al licenziamento del capo dello Shin Bet, Ronen Bar, da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu, rispetto al 31% che sostiene la sua rimozione. Il risultato contrasta con il 64% che, in un sondaggio di due settimane fa, sosteneva che Bar avrebbe dovuto dimettersi, e con il 18% che sosteneva il contrario.
Tel Aviv, 17 mar. (Adnkronos) - Il ministero della Salute libanese ha dichiarato che almeno sette persone sono state uccise e 52 ferite negli scontri scoppiati la scorsa notte al confine con la Siria. "Gli sviluppi degli ultimi due giorni al confine tra Libano e Siria hanno portato alla morte di sette cittadini e al ferimento di altri 52", ha affermato l'unità di emergenza del ministero della Salute.
Beirut, 17 mar. (Adnkronos/Afp) - Hamas si starebbe preparando per un nuovo raid, come quello del 7 ottobre 2023, penetrando ancora una volta in Israele. Lo sostiene l'israeliano Channel 12, in un rapporto senza fonti che sarebbe stato approvato per la pubblicazione dalla censura militare. Il rapporto afferma inoltre che Israele ha riscontrato un “forte aumento” negli sforzi di Hamas per portare a termine attacchi contro i kibbutz e le comunità al confine con Gaza e contro le truppe dell’Idf di stanza all’interno di Gaza.
Cita inoltre il ministro della Difesa Israel Katz, che ha detto di recente ai residenti delle comunità vicine a Gaza: "Hamas ha subito un duro colpo, ma non è stato sconfitto. Ci sono sforzi in corso per la sua ripresa. Hamas si sta costantemente preparando a effettuare un nuovo raid in Israele, simile al 7 ottobre". Il servizio televisivo arriva un giorno dopo che il parlamentare dell'opposizione Gadi Eisenkot, ex capo delle Idf, e altri legislatori dell'opposizione avevano lanciato l'allarme su una preoccupante recrudescenza dei gruppi terroristici di Gaza.
"Negli ultimi giorni, siamo stati informati che il potere militare di Hamas e della Jihad islamica palestinese è stato ripristinato, al punto che Hamas ha oltre 25.000 terroristi armati, mentre la Jihad ne ha oltre 5.000", hanno scritto i parlamentari, tutti membri del Comitato per gli affari esteri e la difesa.
Tel Aviv, 17 mar. (Adnkronos/Afp) - L'attacco israeliano nei pressi della città di Daraa, nel sud della Siria, ha ucciso due persone. Lo ha riferito l'agenzia di stampa statale siriana Sana.
"Due civili sono morti e altri 19 sono rimasti feriti in attacchi aerei israeliani alla periferia della città di Daraa", ha affermato l'agenzia di stampa, mentre l'esercito israeliano ha affermato di aver preso di mira "centri di comando e siti militari appartenenti al vecchio regime siriano".