I cittadini di Duisburg hanno mandato a casa per referendum il loro sindaco, Adolf Sauerland, punendolo per il suo testardo rifiuto di assumersi le responsabilità politiche per la tragedia della Love Parade del luglio 2010 che costò la vita a 21 persone. Il risultato della consultazione, tenutasi domenica 12 febbraio, ha stupito lo stesso politico cristiano-democratico, che dalle urne si aspettava un’assoluzione e invece ha dovuto fare i conti con una pioggia di voti contrari: a esprimersi contro di lui sono state circa 130mila persone, quasi 40mila in più, cioè, di quelle che sarebbero bastate per defenestrarlo. E pensare che alla vigilia ”esito del voto appariva sul filo del rasoio. In una città in cui tradizionalmente l’affluenza è molto bassa, domenica si è presentato alle urne il 41,6% degli aventi diritto. Il quorum era fissato al 25%. Un trionfo della democrazia diretta: in Nordreno-Vestfalia, un Land abitato da circa 18 milioni di persone, non era mai successo che i cittadini cacciassero con un referendum il loro sindaco. Non solo, ma gli abitanti di Duisburg sono riusciti in quello in cui la politica classica aveva fallito: nel settembre del 2010 una mozione di sfiducia presentata nel consiglio comunale era stata respinta per l’opposizione della Cdu, il partito del sindaco.
Sauerland farà le valigie mercoledì, con tre anni di anticipo sulla fine regolare del suo mandato. Fatale è stata la sua disastrosa gestione del post-catastrofe, quella sua personalissima versione dei fatti ripetuta come un’ossessione (“io non ho firmato nulla, sono stati dei funzionari a me subordinati ad autorizzare la Love Parade”, ha ribadito fino all’ultimo), unita all’impressione, diffusa a più livelli, che volesse restare attaccato alla poltrona, malgrado tutto. Malgrado i parenti delle vittime lo avessero lasciato fuori dalla cerimonia funebre perché non volevano neanche incrociare il suo sguardo, malgrado una città ancora oggi sotto choc gli avesse ormai voltato le spalle, malgrado non ci fosse quasi più manifestazione pubblica a Duisburg in cui il sindaco non fosse accolto con un coro di fischi, di buh, o, in alcuni casi, addirittura con lanci di ketchup, malgrado persino il presidente federale, Christian Wulff – lui stesso coinvolto in uno scandalo che si fa ogni giorno più grande – lo avesse invitato ad andare a casa. E malgrado fosse stato proprio lui, Adolf Sauerland, il cristiano-democratico che nel 2004 era riuscito a interrompere il dominio socialdemocratico che durava dal 1948, a voler portare a tutti i costi la Love Parade a Duisburg.
La città doveva finalmente presentarsi sotto una luce nuova: moderna, giovane, alternativa, non più come un grigio centro nel pieno della Ruhr con una storia fatta di carbone e acciaio e un futuro ancora tutto da definire. Il calcolo di Sauerland è fallito il 24 luglio 2010, il giorno in cui 21 persone persero la vita (tra questi anche una ventunenne italiana, Giulia Minola) e oltre 500 rimasero ferite a causa del caos scoppiato in un tunnel che dava accesso all’area che ospitava la Love Parade. Da quel giorno amministratori comunali e organizzatori si rimpallano le responsabilità. Le indagini sono ancora in corso. Finora sul registro degli indagati compaiono 17 persone: un poliziotto, cinque dipendenti della Lopavent, la società che organizzò l’evento, e 11 dipendenti comunali. Il nome di Sauerland non è tra questi. Finché un dipendente comunale non verrà condannato in tribunale non me ne andrò, è stata la linea difensiva di un sindaco che in nessun momento è sembrato davvero all’altezza della gravità della situazione. Le sue prime scuse ai parenti delle vittime sono arrivate quasi un anno dopo la tragedia. Avrebbe dovuto assumersi subito la responsabilità morale e politica della tragedia e farsi da parte, argomentano i critici, che nei mesi scorsi hanno raccolto circa 80.000 firme per convocare il referendum e cacciarlo. Ora Duisburg ha sei mesi di tempo per eleggere un successore. La sentenza che appurerà le colpe della catastrofe della Love Parade è di là da venire. Il giudizio politico, invece, è stato scritto domenica.