“Il San Paolo di Napoli è uno degli stadi occidentali più simile a quelli colombiani. Non tutti gli ultrà sono camorristi, ma ci sono camorristi ultrà e le logiche del clan ci sono anche in curva, basti pensare ai nomi di alcuni gruppi evocativi di clan di camorra”. Il procuratore aggiunto Giovanni Melillo così descrive le degenerazioni del mondo ultrà napoletano e la completa anarchia che regna nelle curve dello stadio San Paolo, dove non possano entrare forze dell’ordine e steward.
Una descrizione accurata durante la conferenza stampa in Procura a Napoli che ha chiarito i particolari dell’operazione della Digos che ha portato al fermo di 11 ultrà del gruppo Bronx. Quello che emerge è l’organizzazione da apparato militare. Sono numerose le vere e proprie guerriglie organizzate dal gruppo in diverse partite in casa e in trasferta, pestaggi e aggressioni come quella ai danni dei tifosi inglesi in occasione di Napoli-Liverpool.
Un’inchiesta lunga e complessa, coordinata dai pm della Procura partenopea Antonello Ardituro, Danilo De Simone e Vincenzo Ranieri. Sono due le stagioni calcistiche monitorate (2009-2010/2010-2011) con l’intera galassia ultrà napoletana sotto osservazione, un mondo variegato di 14 sigle con 7 mila elementi.
Su tutti spicca la violenza dei Bronx. Un gruppo che staziona nella curva A del San Paolo, composto da circa cinquanta persone con un modello di gestione verticisistico e una organizzazione militare con simboli, segni distintivi, pratiche consolidate. Agli indagati è stato contestato il reato di associazione a delinquere: una piramide di comando con al vertice Francesco Fucci, già ai domiciliari per un’inchiesta sul traffico di droga e vicino al clan Mazzarella, ma nonostante questo, con direttive e ordini, teneva unito il gruppo e sotto scacco gli affiliati.
La sua casa era il quartier generale per organizzare la violenza cieca, riunire gli affiliati, avere contatti con gli altri gruppi ultrà. Nessuno sgarro perché chi sbagliava subiva la rigida disciplina imposta dai vertici. I Bronx sono uniti nella violenza pianificata contro forze dell’ordine, i ‘bastardi’, e le tifoserie avversarie. Hanno un loro segno di identificazione: il tatuaggio, la raffigurazione di un guerriero travisato che impugna una cintura come fosse un’arma. Un modo per riconoscersi nel branco, ma da cancellare appena si usciva dal gruppo.
Lo racconta al telefono un soggetto entrato in rotta di collisione con Fucci che gli ha ordinato di coprire o cancellare il tatuaggio per evitare ritorsioni. In un’altra conversazione un capo del gruppo è ancora più eloquente: “Se mi date il numero lo chiamo io, o ti levi il tatuaggio o ti spacco la faccia”. Una disciplina ferrea e un rispetto di un codice fatto di simboli e violenza. Importante anche l’estetica come una formazione paramilitare vigeva disciplina e ordine. Fucci spiega l’importanza dell’abbigliamento durante un incontro nella sua casa: “A me piace l’estetica, dovete venire tutti scuri né magliette chiare, né magliette rosse, né magliette verdi, né magliette rosse, niente! Perché se venite così vi faccio allontanare”.
Le aggressioni alle forze dell’ordine e ai tifosi avversari venivano pianificate anche con pedinamenti per seguire gli spostamenti dei supporter delle squadre e capire dove colpire. Violenza gratuita anche contro tifoserie di squadre in occasione di incontri delle serie minori. Un altro elemento per cementare il gruppo era l’autofinanziamento per sostenere le spese legali. Il gip Luigi Giordano chiarisce che non si può parlare di tifosi, ma solo di violenti. Portare armi e lame è l’abc dell’ultrà Bronx.
“Non arretrano, sono organizzati e strutturati – ha spiegato il capo della Digos Filippo Bonfiglio – non bastano le nostre cariche di allegerimento. Usano quello che trovano e l’armamentario che portano da casa”. Per capirlo basta leggere un passaggio dell’ordinanza cautelare. Al telefono Alessandro Caputo, tra i fermati, lo spiega al fratello come bisogna andare in trasferta: “E’ normale portare armi nel furgone…mica si va in Vaticano”.