Meno lavoro, meno carriera, meno pagate. Questa è la fotografia delle donne nelle imprese private scattata dalla Commissione europea. E l’Italia? Male, anzi malino. Nel Belpaese il gap di genere nei consigli d’amministrazione che contano resta alto, al 6,7 per cento, sestultima posizione in Europa, con una presenza femminile inferiore alla metà della media Ue (13,7 per cento). Tuttavia la differenze di salario con i colleghi maschi, ormai una costante, si attesta ‘solo’ a 5,5 per cento. Qui potrebbe infatti andare peggio, si pensi che in Estonia si può arrivare al 28, In Austria al 25,5 per cento e in Germania al 23,1. Ma si sa, al peggio non c’è mai fine.

Lo sanno bene tutte quelle donne che in Italia per sedersi sulla poltrona che conta devono avere un santo in paradiso: peggio di noi solo Malta, Cipro, Ungheria, Lussemburgo e Portogallo. Come al solito, a dimostrare che la leadership rosa non solo è possibile ma funziona, ci pensa il Nord Europa, con in testa la Finlandia, dove le donne-capo sono il 27 per cento, la Lettonia (26 per cento) e la Svezia (25 per cento). In Norvegia, Paese non Ue ma all’interno dello spazio economico europeo e di Schengen) si arriva al 43 per cento, ma questo è un altro mondo.

Il paradosso italiano è che, dati della Commissione alla mano, le donne studiano di più (l’80,2 per cento consegue un diploma di scuola secondaria superiore contro 72,6 per cento dei coetanei maschi), ma ciononostante lavorano meno (49,4 per cento contro 72,8 per cento) e guadagnano appunto meno (-5,5 per cento). Discrepanze che si ripetono ovunque, tra i leader aziendali (35 contro 65), nei CdA delle grandi aziende (dove sono solo il 6 per cento) e, ovviamente, in politica (21,4 per cento contro 78,6 per cento). In un aspetto le donne sono superiori: nella percentuale che riflette un periodo anche minimo di lavoro settimanale straordinario non retribuito (24,4 per cento contro 8,2 per cento).

“Un anno fa ho chiesto alle imprese di aumentare volontariamente la presenza delle donne nei consigli di amministrazione. Il mio appello, sostenuto dal Parlamento europeo, è stato trasmesso alle organizzazioni professionali dai ministeri del lavoro, degli affari sociali e delle pari opportunità di molti Stati membri. Constato però con rammarico che l’autoregolamentazione non ha dato finora grandi risultati”, ha affermato Viviane Reding, vicepresidente della Commissione europea e commissaria europea per la Giustizia. Sì, perché solo un anno fa la Commissione si aspettava grandi cose dalle aziende europee, e questo solo su base volontaria. Per carità, qualche miglioramento c’è stato, si è passati dal 11,8 per cento del 2010 al 13,7 per cento (un consigliere su sette) di quest’anno. Come stima la Commissione stessa, di questo passo ci vorranno ancora 40 anni per raggiungere un equilibrio di genere accettabile (entrambi i sessi rappresentati per almeno il 40 per cento).

Riecco spuntare all’orizzonte le quote rosa. “Le quote rosa non suscitano il mio entusiasmo, ma i risultati mi piacciono”, ha detto la Reding. “E’ ora di infrangere quel soffitto di cristallo che in Europa continua ad ostacolare l’ascesa di donne di talento ai vertici delle società quotate in Borsa”. Ma attenzione, non è solo una questione di pari diritti. A voler essere pragmatici è anche una questione di ‘business’, come si dice in gergo. I dati disponibili mostrano che l’equilibrio di genere ai vertici aziendali incide positivamente sulle prestazioni delle imprese, sulla competitività e sui profitti. In uno studio della McKinsey si legge, ad esempio, che le società con rappresentanza paritaria realizzano profitti del 56 per cento superiori rispetto a quelle a conduzione unicamente maschile. Un’analisi condotta da Ernst & Young sulle 290 principali società quotate in borsa mostra che le imprese con almeno una donna nel consiglio di amministrazione realizzano utili decisamente più elevati rispetto a quelle in cui le donne sono del tutto assenti dai vertici aziendali.

Ma allora com’è possibile che solo 24 società in tutta Europa abbiano accolto l’invito dell’anno scorso della Commissione ad impegnarsi a portare le quote rosa nei consigli di amministrazione al 30 per cento entro il 2015 e al 40 per cento entro il 2020? L’unica risposta sembra essere una questione di cultura. Tuttavia qualche segnale positivo c’è. La Francia, che nel 2011 ha introdotto una legge sull’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione, incide da sola su circa la metà dell’aumento nell’Unione.

E gli europei cosa ne pensano? Secondo dati Eurobarometro , l’opinione pubblica è chiaramente a favore di un cambiamento di rotta: l’88 per cento degli europei ritiene che, a parità di competenze, le donne debbano avere pari rappresentanza ai vertici aziendali. Il 76 per cento degli interpellati è del parere che le donne abbiano le competenze necessarie mentre il 75 per cento è d’accordo ad introdurre leggi sulla parità di genere nei consigli di amministrazione, leggi il cui rispetto, per una maggioranza relativa (49 per cento), andrebbe assicurato con sanzioni pecuniarie. In questo panorama, quote rosa vincolanti appaiono come l’unica soluzione possibile. Viviane Reding, sembra infatti non avere più dubbi: leggi vincolanti in tutta Europa per accelerare l’ingresso delle donne nelle stanze dei bottoni.

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