“Noi (della Liguria) con la Calabria abbiamo tutta la massima collaborazione, tutto il massimo rispetto, siamo tutti una cosa, pare che la Liguria è ‘ndranghetista … Quello che c’era qui, lo abbiamo portato lì … Quello che amministriamo lì, lo amministriamo per la nostra terra … non è che lì amministrano loro, lì amministriamo sempre noi calabresi”. Bastano queste poche frasi, catturate in un aranceto di Rosarno per smentire anni di presunta immunità dalla Liguria alle mafie. Chi parla è Domenico Gangemi, ritenuto il capo della ‘ndrangheta ligure, a colloquio con Domenico Oppedisano, che l’inchiesta “Il Crimine” indentifica con il capo assoluto della ‘ndrangheta.
Storicamente sono 4 le locali individuate in Liguria: Genova, Ventimiglia, Lavagna e Sarzana. A queste “tradizionali” se ne sono aggiunte altre, scoperte durante l’inchiesta “Crimine/Infinito”: Imperia, Ventimiglia, Bordighera, Sanremo, Taggia, Diano Marina, Albenga, Savona Albisola, Varazze, e Rapallo.
Per anni la ‘ndrangheta e le altre mafie in Liguria non sono state adeguatamente riconosciute. Il motivo risiede nel basso profilo criminale assunto dagli affiliati che, pur adottando in toto tradizioni e rituali della cosca di riferimento, hanno scelto di esercitare un diverso controllo del territorio, funzionale al riciclaggio dei capitali e alla gestione dei latitanti. Questo ha significato inserirsi nel tessuto imprenditoriale della Regione, occupando in alcuni settori ruoli di primo piano e pilotando gli appalti comunali tramite il condizionamento degli enti locali. Nel caso delle regioni settentrionali la relazione della Direzione nazionale antimafia parla di “mimetismo imprenditoriale” e in particolare, nel caso di territori non ancora “colonizzati” come la Liguria, segnala l’importanza di saper “cogliere i sintomi”.
Il traffico di stupefacenti resta l’attività criminale preminente, mentre episodi estorsivi o di usura, esercitati soprattutto nei confronti di imprenditori che provengono dalle stesse zone d’origine, sono finalizzati al controllo dell’attività economica.
Difficile, in questo contesto, dimostrare in sede dibattimentale l’esistenza di un’organizzazione criminale di stampo mafioso. Le uniche due sentenze per 416bis in Liguria sono quelle che hanno riguardato nel 2002 a Genova la famiglia Fiandaca, organica del clan di Piddu Madonia per Cosa nostra, e la famiglia Maffodda, di Arma di Taggia, per la ‘ndrangheta.
Sulla base delle relazioni riservate che i prefetti hanno inviato alla Commissione parlamentare antimafia è possibile tracciare una panoramica delle presenze mafiose in Liguria
Imperia
Il 25 luglio scorso i tre commissari nominati per indagare su eventuali infiltrazioni mafiose nel comune di Ventimiglia prendono possesso del loro ufficio. Il loro lavoro non passerà inosservato, soprattutto ai pregiudicati calabresi che – notano i carabinieri – li osservano “con atteggiamenti e finalità tipici degli ambienti malavitosi della regione d’origine”. Questa è la situazione odierna nell’estremo Ponente ligure, ma la ‘ndrangheta è arrivata a Ventimiglia nel 1947 quando vi si trasferisce Ernesto Morabito. Negli anni Morabito riesce a costruirsi un’immagine rispettabile, fino a essere insignito del titolo di Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Il suo ruolo sarebbe andato a Francesco Marcianò considerato fino al 1998 capo della locale di Ventimiglia, e poi, dopo la sua morte, al fratello, Giuseppe Marcianò, e ad Antonio Palamara, elemento di spicco di Ventimiglia Alta. I due manterrebbero, secondo gli inquirenti, “un legame inscindibile con la potente cosca dei Piromalli, dalla quale ricevono ordini e direttive”. Così, in un attimo, si torna al presente e al decreto di scioglimento del comune, perché Giuseppe Marcianò, controlla, attraverso la moglie Angela Elia, la cooperativa Marvon, che si è aggiudicata gran parte degli appalti, indetti dal Comune, attraverso la controllata Civitas, e numerosi lavori nella costruzione del porto.
I porti in costruzione lungo tutta la costa, del resto, sono un incubatore ideale per rapporti poco chiari, dal momento che per aggirare le direttive comunitarie in materia di appalti, si è scelto di ricorrere al codice della navigazione. Lo stesso dicasi per le controllate municipali che, nate per evitare gli ostacoli del patto di stabilità, hanno finito per aggiudicare lavori senza la necessaria documentazione antimafia. Proprio pochi giorni fa ha suscitato scandalo scoprire che a capo della Gestioni Municipali spa il sindaco di Diano Marina ha appena nominato Domenico Surace, che il prefetto di Imperia Fiamma Spena indica in una mappa dei “soggetti riconducibili ad organizzazioni di stampo mafioso” (anche se, al momento, non sono note indagini a suo carico).
A Bordighera lo scioglimento del Comune è arrivato nel marzo scorso e il provvedimento è appena stato confermato dal Tar del Lazio, contro il ricorso avanzato dall’ex sindaco Bosio. Qui la questione ‘ndrangheta, esplode il 13 giugno del 2010, quando un blitz in piena regola porta in carcere i fratelli Maurizio, Giovanni e Roberto Pellegrino; Teodoro, Domenico e Francesco Valente; Rocco De Marte e Francesco Barilaro. Tutti ritenuti vicini alla cosca Santaiti- Gioffrè di Seminara. Le accuse vanno dall’intimidazione, all’estorsione e al favoreggiamento della prostituzione. Le intimidazioni sembrano il mezzo più breve per ottenere permessi e licenze, come quando si recano a casa degli assessori Marco Sferrazza e Ugo Ingenito, contrari all’apertura di una sala giochi. “Da quando sono venuti quelli lì a farmi vista – confida Sferrazza a un maresciallo dei carabinieri – dormo con la pistola sotto il cuscino”. Durante il processo di primo grado, però, l’assessore non conferma l’intimidazione ricevuta e la giuria, pur condannando gli imputati a pene pesanti, non accoglie la tesi dell’accusa: senza l’intimidazione data dal vincolo associativo non c’è aggravante mafiosa.
Secondo gli inquirenti, il processo ai Pellegrino e ai Barilaro mostrerebbe la forza e l’autonomia che le due famiglie avrebbero saputo conquistarsi nonostante il territorio di Bordighera sia controllato dalla locale di Ventimiglia. E proprio l’attrito con i Palamara sarebbe alla base dei numerosi attentati incendiari che hanno colpito il Ponente ligure dal 2009.
A differenza di quanto si asserisce solitamente – che al Nord la ‘ndrangheta non spara – in Liguria non si sono avuti omicidi eclatanti solo perché sono stati stroncati sul nascere. Basti ricordare l’arresto, avvenuto a gennaio dell’anno scorso, di Michele e Alessandro Macrì, rispettivamente padre e figlio. I due sarebbero stati in procinto di organizzare un attentato contro “obiettivi istituzionali”: “Bisogna dare una lezione ai carabinieri, si stanno allargando troppo – rivelano alle microspie che li stanno intercettando – Bisogna trasformarli in cadaveri”. Il mese prima i carabinieri di Sanremo avevano arrestato un gruppo di fuoco, proveniente da Taurianova, pronto a commettere un omicidio: probabilmente quello di Donatella Albano, la capogruppo del Pd di Bordighera, che si era opposta all’apertura di una sala giochi.
Mafie a Ponente non significa solo ‘ndrangheta. Nel comprensorio di Camporosso, Ventimiglia e Arma di Taggia sono segnalati anche i siciliani. Ma è soprattutto la camorra a Sanremo a dialogare con i calabresi. Elemento di spicco sin dagli anni ’80, è Giovanni Tagliamento. Inviato dai clan Zaza e Cuomo per occuparsi del mercato della contraffazione, “organizza le proprie attività secondo la logica del ‘sistema camorristico’- scrive il prefetto Spena – avvalendosi di pregiudicati …, occupandosi indifferentemente di traffico di stupefacenti, reati contro il patrimonio, sfruttamento della prostituzione e commercio in marchi contraffatti”. Fra i suoi interessi, non manca, ovviamente, il Casinò. Nel corso degli anni ’90 è costretto a riparare in Francia e le sue “attività” cadono in una sorta di anarchia criminale. Fino al 2006, quando da Mentone cerca di riconquistare il controllo del territorio. Attualmente il più importante rivenditore di merce contraffatta del Ponente è considerato il pregiudicato campano Antonio Alberino.
Per quanto riguarda Cosa nostra, significativo è il processo che si sta celebrando a Sanremo a Giovanni Ingrasciotta. Ingrasciotta è un siciliano, già collaboratore di giustizia, titolare della ditta “Coffee Time”, che tratta distributori automatici di cibi e bibite. Per aggiudicarsi l’appalto di fornitura indetto dalla Asl 1 di Imperia, l’ex collaboratore di giustizia avrebbe cercato di intimidire un suo concorrente, mostrandogli una foto di Matteo Messina Denaro e vantando una relazione di vicinanza con il boss.
Desta perplessità anche la vicenda che ha coinvolto il presidente del Tribunale di Imperia, Gianfranco Boccalatte, il suo autista e due pluripregiudicati, accusati di corruzione in atti giudiziari e millantato credito.
Secondo l’ex prefetto Di Menna, le numerose operazioni di polizia e il venir meno dei confini con il trattato di Schengen, avrebbero minato la supremazia delle cosche ponentine a favore della centralità di quelle genovesi.
Savona
Secondo le osservazioni dell’ex prefetto Claudio Sanmartino, nella provincia di Savona “non sembrerebbe registrata la presenza di vere e proprie ‘cosche’, dedite alla commissione di reati tipici delle organizzazioni criminali … -ma solo – la presenza di alcuni gruppi familiari i cui componenti … sono risultati in stretto contatto con malavitosi calabresi”. Un’affermazione simile a Milano si è rivelata quantomai infelice.
Un personaggio che torna prepotentemente alla ribalta nella relazione del Procuratore distrettuale antimafia, Vincenzo Scolastico, è Carmelo Gullace, considerato il referente per il Nord Ovest d’Italia della cosca Raso-Gullace- Albanese di Cittanova. Gli altri referenti della cosca sarebbero, secondo la D.I.A. di Genova, Raso Girolamo, detto “il Professore” o “Mommo” e Raso Giuseppe, soprannominato “Avvocaticchio”. Gullace non è mai stato condannato, ma ha alle spalle una storia giudiziaria di tutto rispetto. Accusato dell’omicidio di alcuni rivali del clan Facchineri e di aver partecipato al rapimento di Marco Gatta nel 1979, viene arrestato nel 1999 a Cannes. Durante il processo, però, la Corte non ammette alcune registrazioni catturate in carcere, in cui Gullace confida a un amico il ruolo avuto nel rapimento, e viene assolto.
Oggi vive a Toirano e lavora per la Samoter, la società che gestisce discariche, intestata alla moglie, Giulia Fazzari, e a sua sorella Rita.
Giulia, Rita e Filippo Fazzari sono i figli di Francesco Fazzari, deceduto nel 2009 e noto per aver lasciato una discarica da 25 mila tonnellate di rifiuti pericolosi a Borghetto Santo Spirito e una da 40mila fusti sotterrati nel territorio di Lavagna. Dopo la morte del padre, Filippo, che oggi vive in Spagna, è stato condannato in secondo grado a 4 anni e mezzo di reclusione. Nonostante questi “precedenti familiari” il comune di Albenga ha appena riaperto il progetto presentato dalla Samoter per una discarica di inerti nella zona di Campochiesa.
A Loano Antonio Fameli. arresto il 7 marzo 2012, ha fatto i soldi con imprese di pulizie, agenzie immobiliari e sale da gioco. Molti soldi, al punto che uno dei primi collaboratori, Pino Scriva, lo ha descritto come molto vicino a Peppino Piromalli e ai Raso-Gullace-Albanese. Fameli, però, non è mai stato condannato in via definitiva, nonostante una sentenza all’ergastolo emessa dalla corte di Palmi nel 1985, poi ribaltata in Cassazione.
Savona è il regno della famiglia Fotia e della loro ScavoTer, azienda che opera nel settore del movimento terra. Originari di Africo, i Fotia vengono ritenuti vicini alla cosca dei Morabito-Palamara-Bruzzaniti, pur senza essere mai stati condannati per associazione mafiosa. Leader della famiglia era il padre Sebastiano, fino a quando, nel 1991 non è stato arrestato per traffico di stupefacenti e armi. La sua reclusione dal ’91 al ’98 ha coinciso con l’ascesa del figlio Pietro, coniugato con Bruna Palamara. Pietro, che negli anni ’90 ha mantenuto rapporti con Rocco Morabito ad Africo Nuovo e Antonio Bruzzaniti a Milano, è stato arrestato nel maggio scorso, insieme al consigliere comunale del Pd Roberto Drocchi, per una vicenda di tangenti e appalti. Recentemente, però, una richiesta di confisca di beni da parte della Dia nei loro confronti, è stato respinto dai giudici perché gli elementi dedotti dalla Dia riguardo ai collegamenti dei Fotia con la criminalità organizzata sono definiti come “privi di riscontri concreti ovvero illazioni investigative“
Varazze e il Levante savonese sembrano essere invece il territorio della famiglia Stefanelli, originaria di Oppido Mamertina. Insieme con le famiglie calabresi Fonte e Giovinazzo, anch’esse stanziate sul territorio varazzino, gestirebbero il traffico di stupefacenti. Leader del sodalizio sarebbe stato, fino al 1997, Antonino Stefanelli, molto probabilmente caduto vittima di lupara bianca insieme a un nipote omonimo, nella lotta che lo ha opposto s.
Genova
Mafia siciliana e mafia calabrese da anni si spartiscono il mercato genovese (soprattutto traffico di stupefacenti, prostituzione e gioco d’azzardo) mantenendo un profilo criminale basso, per non attirare l’attenzione delle forze di polizia. E per anni gli investigatori non hanno saputo leggere insieme episodi delittuosi che, messi in relazione, avrebbero rivelato l’esistenza di piani preordinati e organizzazioni malavitose. Prova ne è il ridotto numero di misure di prevenzione patrimoniali e personali adottate nell’ultimo decennio.
Le operazioni “Il Crimine”, “Maglio” e “Maglio3” hanno però rivelato, per quanto riguarda la ‘ndrangheta, una struttura più verticistica di quanto non fosse stato ipotizzato precedentemente, con una “camera del crimine” stabilmente fissata a Genova e deputata a regolare gli affari e le tensioni fra le locali liguri (compresa quella del Basso Piemonte). A capo di questa struttura sarebbe stato individuato Domenico Cangemi, referente dei De Stefano di Reggio e, in posizione subordinata, Domenico Belcastro, ritenuto vicino ai Commisso di Siderno. In particolare le indagini “Crimine” e “Maglio3” evidenziano un rapporto di subordinazione “funzionale e federativo” tra gli esponenti dei gruppi periferici e la componente reggina del capoluogo ligure.
Pochi giorni prima di Natale, nel 2010, viene arrestato anche Onofrio Garcea, sfuggito all’operazione “Il Crimine”, mentre fa tranquillamente la spesa nel quartiere di Pegli. Ai carabinieri che lo fermano, l’uomo che aveva organizzato una cena elettorale per la candidata alle regionali dell’IDV, Cinzia Damonte, si presenta con le impronte digitali cancellate dall’acido. Secondo l’accusa il calabrese prestava soldi ai commercianti di Sestri Ponente attraverso la fiduciaria EffegiDirect di Cornigliano, a tassi che arrivavano fino al 240% e metodi mafiosi per ottenere la restituzione. Lo spot della finanziaria, interpretato dall’esponente locale dell’Udc, Pietro Ferdinando Marano, è ancora visibile su Youtube.
Garcea è anche colui che meglio definisce l’evoluzione attuata dalla ‘ndrangheta, in un’intercettazione riportata nell’operazione “Maglio3”: “Una volta camminavo con due pistole addosso – commenta – ora con due telefoni”.
La Eco.Ge, impresa di specializzata in bonifiche ambientali e demolizioni speciali è un colosso in Liguria, al punto che il sindaco di Genova, Marta Vincenzi, li ha chiamati a ripulire la città dopo la recente alluvione. I Mamone, proprietari dell’impresa, però, pur non essendo mai stati condannati, vengono indicati dal 2002, nei rapporti della Dia, come una delle famiglie che riciclano i soldi di Carmelo Gullace. In particolare Gino Mamone, già implicato nelle indagini sulla bonifica dell’ex Ilva di Cornigliano, è stato colpito nel 2010 da un’informativa antimafia “atipica”, ovvero che lascia una “valutazione autonoma e discrezionale” alle amministrazioni pubbliche committenti dei lavori. Suo cognato, Silvio Criscino, viene indicato da alcuni collaboratori di giustizia quale “banchiere” delle cosche calabresi operanti in Liguria.
Per quanto riguarda Cosa nostra, dopo la sentenza del 2002 che certificava l’esistenza di “decine” legate al clan di Piddu Madonia, recenti sviluppi investigativi ipotizzerebbero la presenza in città di personaggi legati a Matteo Messina Denaro e collegati a Giovanni Ingrasciotta.
Nel maggio scorso, infine, l’operazione “Tetragona” ha scoperto delle importanti basi, in Liguria e in Lombardia, dei clan Rinzivillo ed Emanuello, da sempre antagonisti fra di loro ma legati a Piddu Madonia. L’operazione, che ha portato all’arresto di Emanuele Monachella e Vincenzo Morso, ha permesso di comprendere le nuove dinamiche espansive del gruppo, proiettato a riaffermare la propria influenza sul Nord Italia, nel traffico di stupefacenti, nella gestione delle slot machine e nel reimpiego dei capitali illeciti.
Modificato da Redazione Web alle 17.05 del 29 ottobre 2012