Ormai è fatta. A un anno e mezzo di distanza dall’addio obbligato a Unicredit e a poco più di un mese dalla richiesta di rinvio a giudizio con l’accusa di evasione fiscale nell’affaire Brontos, Alessandro Profumo torna di prepotenza nel salotto buono della finanza italiana conquistando la presidenza della più antica banca del pianeta, quel Monte dei Paschi reduce da un quinquennio di tracollo borsistico e prossimo, a questo punto, ad un futuro particolarmente incerto tra l’ennesima ipotesi di aumento di capitale e la certezza di un piano di riduzione dei costi che ha già scatenato la rabbia dei suoi dipendenti.
E’ una vittoria dalle evidenti conseguenze politiche, quella di Profumo, figura capace di spaccare il Pd locale e di creare una palese frattura all’interno della stessa Fondazione che lo ha scelto per la successione di Giuseppe Mussari contro la volontà del suo stesso numero uno Gabriello Mancini, protagonista, ieri, di un ininfluente ma significativo voto contrario. Ieri la deputazione amministratrice della Fondazione ha dato il via libera alla lista dei sei candidati per il nuovo Cda che vede tra le sue fila, oltre allo stesso Profumo, anche l’attuale direttore generale Fabrizio Viola, nonché Angelo Dringoli, Marco Turchi, Paola Demartini e Tania Groppi. A quanto suggeriscono oggi i rumors politici, dunque, a prevalere sarebbe stata la linea condivisa dal sindaco Franco Ceccuzzi (Pd, area ex Ds), mentre a finire in minoranza sarebbe stata la posizione del presidente del Consiglio regionale Alberto Monaci (sempre Pd, ma area ex Margherita) il cui fratello, Alfredo Monaci, era dato alla vigilia come probabile candidato al Cda.
L’obiettivo della nuova gestione, ovviamente, resta il rilancio di un istituto di credito che sconta un quinquennio di progressivo indebolimento sul mercato caratterizzato da operazioni economicamente discutibili e da una micidiale costante: il deprezzamento del titolo in Borsa. La scorsa estate, fonti sindacali hanno prodotto un dossier sui risultati della banca durante la gestione del presidente uscente Giuseppe Mussari snocciolando, sulla base di informazioni pubbliche per altro, alcune cifre da incubo. Il 27 giugno 2006, il giorno della presentazione del primo piano industriale targato Mussari, il titolo Mps viaggiava a quota 4,60 euro. Esattamente cinque anni dopo il valore si era ridotto a 51 centesimi. Oggi sono meno di 40.
A destare perplessità, come detto, una serie di operazioni del tutto opinabili. Su tutte, la dispendiosa acquisizione di Antonveneta nel novembre del 2007 per un esborso complessivo di 9 miliardi. Antonveneta era finita poco prima sotto il controllo del colosso spagnolo Banco Santander dopo l’acquisizione (in consorzio con Rbs e Fortis) di Abn Amro, già proprietario dell’istituto padovano. All’epoca Abn aveva valutato la banca italiana 6,6 miliardi. La cessione a Mps si sarebbe tradotta di conseguenza in una clamorosa plusvalenza per la banca iberica. Ovvero nel forte sospetto di una spesa terribilmente eccessiva da parte dell’istituto toscano. All’operazione avrebbe fatto seguito un rapido calo del titolo in borsa.
Nel corso del quinquennio 2006-2011, ricordava ancora il dossier, la capitalizzazione dell’istituto era scesa da 11,6 a 3,4 miliardi, mentre i conti della Fondazione erano passati da un avanzo di esercizio pari a 265,3 milioni di euro a un rosso di 128,4 milioni. In sintesi: un drastico ridimensionamento della liquidità della Fondazione e una riduzione dell’88% (oggi del 91,5) sul valore dei titoli in mano ai piccoli azionisti e ai dipendenti (cui sempre più di frequente, affermavano gli stessi ambienti sindacali, veniva offerta la possibilità di trasformare in azioni le proprie retribuzioni, il proprio Tfr e la propria previdenza). A proposito di dipendenti: venerdì migliaia di lavoratori dell’istituto hanno dato vita al primo sciopero dopo 14 anni per protestare contro il piano di taglio dei costi del direttore Fabrizio Viola. Il progetto prevede l’estensione generale dei contratti di solidarietà e la rinuncia ai bonus di fine anno. L’alternativa sono 1.500 esuberi.
Oggi il titolo Mps viaggia a quota 39 centesimi, un valore storicamente molto basso sebbene in forte risalita dopo i minimi di inizio gennaio quando il prezzo unitario toccò quota 0,22 euro. Proprio ai giorni dei minimi borsistici risale anche l’esplicito no all’aumento di capitale fortemente richiesto dall’Eba, l’autorità bancaria europea. Un’operazione condotta invece da Unicredit e costata a piazza Cordusio giorni da incubo a Piazza Affari in una spirale ribassista capace, in pratica, di bruciare in poche sedute il controvalore dell’immane sforzo di ricapitalizzazione. L’opposizione senese all’intervento potrebbe però vacillare sotto la pressione di Bankitalia. Un paio di settimane fa, dicono alcune indiscrezioni già circolate sulla stampa, via Nazionale avrebbe inviato una lettera proprio ai vertici dell’istituto toscano invitandoli a riflettere seriamente sull’ipotesi di una ricapitalizzazione entro giugno.