Il ministro Fornero ha detto a Che tempo che fa del 18 marzo: non si può mantenere il posto di lavoro quando questo è improduttivo e non garantisce le risorse per pagare il salario; si può solo, per quanto possibile, assistere il lavoratore disoccupato. In questo giornale si è parlato molto della riforma dell’art. 18; e con giusta preoccupazione. Cerco qui (e in un prossimo articolo) di illuminare alcune ombre (che condivido): è possibile che non tutto sia buio.
L’interdipendenza tra prodotto e salario può essere attuata in modi diversi. Nell’ipotesi più grave, quando l’azienda non riesce a produrre utili e quindi deve chiudere (se tenta inutilmente di restare sul mercato fallirà), tutti i lavoratori perderanno il posto di lavoro. E questo succede già adesso, non ci si può fare niente. Ma forse occorre solo un ridimensionamento, una riduzione dei costi; in questo caso solo una parte dei lavoratori potrà essere remunerata con gli utili conseguiti. E questo è quanto la riforma proposta dal governo prevede: licenziamento dei lavoratori che l’azienda non è in grado di remunerare ed equo indennizzo.
Ci possono essere situazioni ancora diverse: uno o più lavoratori non sono produttivi, la loro attività non garantisce all’azienda risorse almeno pari a quanto necessario per remunerarli; e potrebbero essere licenziati. Questi sarebbero certamente i casi più problematici e ne parlerò a fondo nel prossimo articolo.
Però è certo che la riforma dell’articolo 18 è di natura economica, non ideologica. E infatti, negli altri due casi di possibili licenziamenti, le soluzioni proposte dal governo sono diverse. Sono vietati i licenziamenti discriminatori; perché sono contrari alla Costituzione, certo; ma anche perché che il lavoratore sia donna, ebreo, di colore, gay o caratterizzato da qualsiasi altra stupida e crudele etichetta, non influisce affatto sulle condizioni economiche dell’impresa o sulla resa economica del suo lavoro. E, quanto ai licenziamenti per motivi disciplinari, l’affidamento al giudice della decisione sulla sussistenza dell’illecito disciplinare è in linea con quanto avviene in ogni altro conflitto civile; è la magistratura che deve attribuire torti e ragioni, che deciderà sul reintegro nel posto di lavoro o sull’indennizzo. Il che non può avvenire per il caso di licenziamento dovuto a ragioni economiche: per l’ottimo motivo che non può certo essere il giudice a stabilire se l’azienda è in condizioni di stare sul mercato oppure no. Anche se, naturalmente, potrà intervenire quando si facesse uso strumentale del motivo economico per nasconderne uno discriminatorio o disciplinare.
Naturalmente la riforma può essere giusta o sbagliata; gli obiettivi potrebbero essere raggiunti con metodi diversi; e forse, certamente per i sindacati, sono proprio gli obiettivi a essere sbagliati. E qui si deve riflettere. Quanto debbono pesare gli interessi dei singoli, sia pure di moltissimi singoli, rispetto a quelli del paese nel suo complesso? A questa domanda è facile rispondere quando la difesa corporativa mira alla tutela di privilegi: politici, tassisti, farmacisti, avvocati. È più difficile quando la posta in gioco è la possibilità di mantenere in vita se stessi e le proprie famiglie. Eppure. È davvero possibile accettare che sia la collettività a farsi carico di una remunerazione che l’azienda non è in grado di pagare? Quanto a lungo può sopravvivere un paese che obbliga le proprie imprese a negare l’interdipendenza tra profitti e costi? Insomma, è proprio vero che il salario è una variabile indipendente?
Il Fatto Quotidiano, 23 Marzo 2012